Un monaco ritornò da una commissione in città, quel pomeriggio, e riferì che nel parco, a tre chilometri dall'abbazia, veniva preparato un campo profughi.
— Credo che sia organizzato dalla Stella Verde, Domne — aggiunse.
— Bene! — disse l'abate. — Qui siamo anche in troppi, e ho dovuto rimandare indietro tre camion carichi di profughi.
I profughi rumoreggiavano nel cortile e quel rumore torturava i nervi logori. La quiete perpetua della vecchia abbazia era infranta da suoni estranei: la risata spavalda di uomini che raccontavano barzellette, il pianto di un bambino, il tintinnio di pentole e tegami, singhiozzi isterici, un medico della Stella Verde che gridava: «Ehi, Raff, portami un tubo per clistere!» Parecchie volte l'abate represse l'impulso di andare alla finestra e di ordinare il silenzio.
Dopo aver sopportato più a lungo che poté, prese un binocolo, un vecchio libro e un rosario, e salì su una delle antiche torri di guardia, dove uno spesso muro di pietra tagliava fuori quasi tutti i suoni provenienti dal cortile. Il libro era un volumetto di versi, anonimo, ma ascritto dalla leggenda a un mitico "santo" la cui canonizzazione era stata compiuta soltanto nella leggenda e nel folklore delle Pianure, ma non in alcun atto della Santa Sede. Nessuno, in realtà, aveva mai trovato una prova che fosse mai esistita una persona come il San Poeta dell'Occhio Miracoloso; la favola era probabilmente nata dal fatto che uno dei primi Hannegan aveva ricevuto in dono un occhio di vetro da un geniale fisico teorico suo protetto — Zerchi non ricordava se lo scienziato fosse stato Esser Shon o Pfardentrott — il quale aveva detto al principe che l'oggetto era appartenuto a un poeta morto per la Fede. Non aveva specificato per quale fede fosse morto il poeta — per quella di Pietro o per quella degli scismatici texarkani — ma evidentemente l'Hannegan l'aveva tenuto caro, perché aveva fatto montare l'occhio di vetro nella stretta d'una minuscola mano d'oro che era ancora portata, in certe occasioni ufficiali, dai prìncipi della dinastia Harq-Hannegan. L'occhio veniva chiamato Orbis Judicans Conscientiae oppure Oculus Poetae Judicis, e gli ultimi scismatici texarkani lo veneravano come una reliquia.
Qualcuno, qualche anno prima, aveva avanzato l'ipotesi piuttosto sciocca che San Poeta fosse lo stesso "versificatore scurrile" menzionato una volta nelle Cronache del Venerabile Abate Jerome, ma l'unica "prova" sostanziale in proposito era il fatto che Pfardentrott — o era Esser Shon? — aveva visitato l'abbazia durante il regno del Venerabile Jerome, all'incirca nell'epoca del riferimento al "versificatore scurrile" nella Cronaca, e che il dono dell'occhio a Hannegan era avvenuto qualche tempo dopo la visita all'abbazia. Zerchi sospettava che il libriccino di versi fosse stato scritto da uno degli scienziati secolari che avevano visitato l'abbazia per studiare i Memorabilia, all'incirca in quel tempo, e che uno di essi potesse essere identificato con il "versificatore scurrile" e probabilmente con il San Poeta del folklore e della favola. I versi anonimi erano un po' troppo arditi, pensava Zerchi, per essere stati scritti da un monaco dell'Ordine.
Il libro era un dialogo satirico in versi tra due agnostici che tentavano di stabilire, secondo la sola ragione naturale, che l'esistenza di Dio non poteva essere stabilita secondo la sola ragione naturale.
I due riuscivano a dimostrare che il limite matematico di una sequenza infinita di "dubitando la certezza con cui qualcosa di dubitato è noto come inconoscibile quando il 'qualcosa di dubitato' è una dichiarazione che precede la 'inconoscibilità' di qualcosa di dubitato", che il limite di questo processo di assoluta certezza, sebbene espresso come una serie infinita di negazioni di certezza. Il testo recava tracce del calcolo teologico di San Leslie, e, seppure sotto forma di dialogo poetico fra un agnostico identificato solo come "Poeta" e un altro identificato soltanto come "Thon" sembrava suggerire una prova dell'esistenza di Dio attraverso un metodo epistemologico, ma l'autore di quei versi era stato un poeta satirico: né il poeta né il thon abbandonavano le loro premesse di agnosticismo, dopo che era stata raggiunta la conclusione dell'assoluta certezza, ma invece concludevano così il loro dialogo: Non cogitamus, ergo nihil sumus.
L'Abate Zerchi si stancò presto dei suoi tentativi di decidere se il libro era una commedia intellettuale o una buffonata epigrammatica. Dalla torre poteva vedere l'autostrada e la città, e più oltre la mesa. Mise a fuoco il binocolo sulla mesa e osservò per qualche tempo le installazioni radar, ma non sembrava che lì stesse accadendo qualcosa di insolito. Abbassò lentamente lo strumento, per osservare il nuovo accampamento della Stella Verde, nel parco a fianco della strada. La zona del parco era stata cintata. Venivano rizzate le tende. Squadre di operai lavoravano alle deviazioni delle linee del gas e dell'energia elettrica. Parecchi uomini stavano rizzando un'insegna all'ingresso del parco, ma la reggevano trasversalmente rispetto all'abate, che non riuscì a leggerla. In qualche modo, quella frenetica attività gli ricordava un "carnevale" nomade che si avvicinasse alla città. C'era una grande macchina rossa. Sembrava avesse un focolare e una caldaia, ma l'abate non riuscì dapprima a indovinarne la funzione. Uomini che indossavano l'uniforme della Stella Verde stavano montando qualcosa che sembrava una piccola giostra. Almeno una dozzina di camion erano fermi sulla strada laterale. Alcuni erano carichi di legname, altri di tende e di lettini pieghevoli. Uno sembrava stesse scaricando mattoni refrattari, e un altro era carico di paglia e di vasellame.
Vasellame?
Studiò attentamente, attraverso il binocolo, il carico dell'ultimo camion. Corrugò lentamente la fronte. Era un carico di urne o di vasi, tutti eguali, avvolti in strati protettivi di paglia. Aveva già veduto qualcosa del genere, ma non riusciva a ricordare dove l'aveva visto.
Un altro camion non portata altro che una grande statua di "pietra"… fatta probabilmente di plastica rinforzata, e una lastra quadrata, sulla quale evidentemente doveva venir montata la statua. La statua era distesa sul dorso, sostenuta da una incastellatura di legno e da un nido di materiale da imballaggio. Poteva vederne soltanto le gambe e una mano protesa che sporgeva dalla paglia. La statua era più lunga del pianale del camion: i suoi piedi nudi sporgevano dal fondo. Qualcuno aveva legato una bandiera rossa a uno dei suoi alluci. Zerchi rifletté. Perché sprecare un camion per una statua, quando c'era probabilmente bisogno di un altro carico di cibo?
Guardò gli uomini che stavano montando l'insegna. Finalmente, uno di loro abbassò una estremità della tavola e salì su una scaletta per sistemare i sostegni superiori. Adesso che un'estremità poggiava sul terreno, l'insegna si inclinò, e Zerchi, allungando il collo, riuscì a leggerne la scritta:
Guardò di nuovo il camion. Il vasellame! E ricordò. Una volta era passato davanti a un crematorio e aveva visto gli uomini che scaricavano urne dello stesso tipo da un camion che portava il marchio della stessa ditta. Spostò di nuovo il binocolo, cercando il camion carico di mattoni refrattari. Si era spostato. Finalmente lo individuò; adesso era fermo all'interno della zona cintata. I mattoni venivano scaricati vicino alla grande macchina rossa. Esaminò di nuovo quella macchina. Ciò che a prima vista era sembrata una caldaia, adesso faceva pensare a una fornace. — Evenit diabolus! - grugnì l'abate, e si avviò verso la scala.