Il laboratorio di carpenteria era saturo dell'odore del pino, del cedro, della segatura, del sudore umano. Non era facile procurarsi il legno, all'abbazia. Salvo gli alberi di fico e un paio di pioppi vicini al pozzo, la regione era priva d'alberi. Occorreva un viaggio di tre giorni per raggiungere la più vicina rivendita di arbusti atrofici che passavano per legname, e spesso i monaci che andavano a procurare il legno si assentavano dall'abbazia per un settimana, prima di ritornare con qualche asinelio carico di rami che servivano a fare pioli, raggi per ruote o al massimo una gamba di sedia. Qualche volta trascinavano dietro di sé un tronco o due per sostituire una trave rotta. Ma con un rifornimento di legname così scarso, i carpentieri erano necessariamente anche scultori e incisori in legno.
Qualche volta, mentre osservava Fingo al lavoro, Francis sedeva su una panca in un angolo del laboratorio e disegnava, cercando di immaginare i particolari della scultura che erano ancora soltanto rozzamente incisi nel legno. C'erano i lineamenti del viso, vaghi e ancora mascherati da schegge e da segni dello scalpello. Con i suoi disegni, frate Francis cercava di anticipare quei lineamenti prima che emergessero dalla grana del legno. Fingo lanciava occhiate ai suoi disegni e rideva. Ma, via via che il lavoro progrediva, Francis non poteva respingere l'impressione che il viso della scultura sorridesse di un sorriso familiare. Schizzò anche quello, e l'impressione di familiarità aumentò. Eppure, non riusciva a individuare quel viso, o a ricordare chi gli avesse sorriso in quel modo ironico.
— Non è male, in verità. Non è affatto male — diceva Fingo dei suoi disegni.
Il copista alzava le spalle. — Non riesco a liberarmi dell'impressione di averlo già visto.
— Non da queste parti, fratello. Non ai miei tempi.
Francis si ammalò durante l'Avvento, e passarono parecchi mesi prima che ritornasse a fare visita alla carpenteria.
— La faccia è quasi finita, Francisco — disse lo scultore. — Ti piace, adesso?
— Ma io lo conosco! — boccheggiò Francis, fissando gli occhi grinzosi, gai e tristi, l'accenno di un sorriso ironico agli angoli della bocca… qualcosa che era quasi troppo familiare.
— Davvero? E chi è, allora? — domandò Fingo.
— È… bene, non sono sicuro. Mi pare di conoscerlo. Ma…
Fingo rise. — Stai riconoscendo i tuoi stessi disegni — disse, come spiegazione.
Francis non ne era altrettanto sicuro. Eppure, non riusciva a ricordare quel viso.
Hmmm-hnnn! sembrava dire quel sorriso ironico.
Tuttavia, l'abate giudicò irritante quel sorriso. Sebbene permettesse che l'opera venisse completata, dichiarò che non avrebbe mai consentito che la si usasse per lo scopo cui era stata destinata in origine… come immagine da porsi nella chiesa se la canonizzazione del Beato fosse stata compiuta. Molti anni dopo, quando la statua fu completata, Arkos la fece collocare nel corridoio della foresteria, ma più tardi la trasferì nel suo studio, quando l'immagine ebbe scandalizzato un visitatore proveniente da Nuova Roma.
Lentamente, faticosamente, frate Francis stava facendo della cartapecora un fulgore di bellezza. La voce del suo progetto si sparse oltre la cerchia della copisteria, e spesso i monaci si raccoglievano attorno alla sua tavola per osservare il lavoro e per mormorare la loro ammirazione.
— È ispirato — sussurrava qualcuno. — È una prova sicura. Può darsi che abbia veramente incontrato il Beato, là fuori…
— Non capisco perché non dedichi il tuo tempo a qualcosa di utile — brontolava frate Jeris, il cui spirito sarcastico era stato esaurito da molti anni di pazienti risposte da parte di frate Francis. Lo scettico aveva usato il proprio tempo libero per fabbricare paralumi per le lampade della chiesa, guadagnandosi così l'attenzione dell'abate, che ben presto lo incaricò di occuparsi dei perenni. E, come i libri dei conti cominciarono ben presto a testimoniare, la promozione di frate Jeris era giustificata.
Frate Horner, il vecchio maestro amanuense, si ammalò. Dopo qualche settimana, fu chiaro che il monaco benvoluto da tutti era sul letto di morte. La Messa funebre fu cantata nei primi tempi dell'Avvento. I resti del vecchio maestro, che aveva vissuto santamente, furono resi alla terra da cui avevano avuto origine. Mentre la comunità esprimeva con la preghiera il suo dolore, Arkos nominò tranquillamente frate Jeris maestro della copisteria.
Il giorno dopo essere stato insignito di quell'incarico, frate Jeris informò frate Francis che considerava giusto che mettesse in disparte i lavori da bambino e cominciasse a fare un lavoro da uomo. Obbediente, il monaco avvolse nella pergamena il suo prezioso progetto, lo protesse con pesanti tavole, lo ripose in uno scaffale, e cominciò a fare paralumi, durante il suo tempo libero. Non mormorò proteste, ma si accontentò di pensare che un giorno o l'altro l'anima del caro fratello Jeris sarebbe partita per la stessa strada dell'anima di frate Horner, per cominciare quella vita di cui il mondo era soltanto un anticipo… l'avrebbe cominciata in età piuttosto giovanile, a giudicare dal modo in cui si irritava e si comportava; e poi, a Dio piacendo, Francis avrebbe potuto ottenere il permesso di completare il suo prediletto documento.
Tuttavia la Provvidenza si incaricò di affrettare i tempi, senza chiamare l'anima di frate Jeris al suo Creatore. Durante l'estate che seguì la sua nomina, un protonotario apostolico e il suo seguito di chierici vennero da Nuova Roma, con una carovana di asini, fino all'abbazia. Il protonotario si presentò come Monsignor Manfredo Aguerra, postulante per il Beato Leibowitz nella causa di canonizzazione. Con lui erano parecchi Domenicani. Era venuto per assistere alla riapertura del rifugio e all'esplorazione dell'Ambiente Sigillato. Inoltre, era venuto per indagare su ogni prova che l'abbazia potesse produrre e che potesse avere qualche importanza nella causa: compresi, con grande sbigottimento dell'abate, i rapporti su una presunta apparizione del Beato che, a quanto affermavano i viaggiatori, si era presentato a un certo Francis Gerard dello Utah, AOL.
L'avvocato dei Santi fu accolto con calore dai monaci, fu ospite nelle stanze riservate ai prelati in visita, fu prodigalmente servito da sei giovani novizi che avevano ricevuto l'ordine di obbedire a ogni suo capriccio, benché risultasse chiaro ben presto che Monsignor Aguerra era un uomo di pochi capricci, con grande delusione dei dispensieri. Furono aperte bottiglie dei vini migliori; Aguerra li assaggiò educatamente, ma preferì bere latte. Il frate Cacciatore procurò quaglie grassottelle e galli selvatici per la mensa dell'ospite: ma dopo essersi informato sulle abitudini alimentari dei galli selvatici («Mangiano grano, fratello?» «No, mangiano serpenti, Monsignore») Monsignor Aguerra preferì la pappa d'avena che mangiavano i monaci in refettorio. Se si fosse informato circa la provenienza degli anonimi pezzetti di carne che galleggiavano negli stufati, avrebbe preferito, tuttavia, i galli selvatici che erano veramente succulenti. Manfredo Aguerra insistette perché la vita nell'abbazia continuasse come al solito. Nonostante questo, l'avvocato veniva intrattenuto ogni sera da concerti di violino e da una troupe di pagliacci fino a che cominciò a credere che la solita vita nell'abbazia fosse straordinariamente vivace, in confronto a quella delle altre comunità monastiche.
Il terzo giorno dopo l'arrivo di Aguerra, l'abate mandò a chiamare frate Francis. I rapporti fra il monaco e il suo superiore, sebbene non fossero stretti, erano ufficialmente amichevoli dal tempo in cui l'abate gli aveva permesso di professare i voti, e frate Francis non tremava neppure mentre bussava alla porta dello studio e chiedeva: — Mi avete mandato a chiamare, Reverendo Padre?