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— Ciao, Willy — disse una, voce vicinissima. — Cos’è questa storia che vuoi andartene dal nido? Non è vero, eh? Dimmi che non è vero.

Girandosi, Carewe si trovò davanti la faccia barbuta di Ron Ritchie, un attivo sui vent’anni, alto, biondo, coordinatore vendite junior del reparto biopoiesi.

— Invece è vero — rispose, riluttante. — Sono stufo di stare qui.

Ritchie si grattò il naso e sorrise. — Sono fiero di te, ragazzo mio. L’altra gente della tua età, appena si fa disattivare, si mette a leggere libri di filosofia. Tu, invece, alzi i tacchi e te ne vai in Brasile.

— In Africa.

— Sì, insomma, da quelle parti. Bisogna fare baldoria per festeggiare.

— Non… — Carewe esitò. Per la prima volta, gli fu chiaro che non aveva più una moglie e una casa dove rifugiarsi per la serata. — Ultimamente ho bevuto troppo. Avevo intenzione di smettere.

— Balle. — Ritchie circondò le spalle di Carewe col braccio. — Ti rendi conto che potrei non rivederti mai più? È un’occasione che vale un bicchierino o due.

— Probabilmente. — Carewe aveva sempre pensato di non avere niente in comune con Ritchie; ma l’unica alternativa possibile era trascorrere la serata da solo. Era quasi convinto che Barenboim lo avrebbe invitato a cena, oppure che avrebbe trascorso qualche ora con lui, a discutere della sua partenza (dopo tutto, era una parte essenziale del progetto più grandioso mai intrapreso dalla Farma); invece, le formalità erano state sbrigate a velocità incredibile, e Barenboim e Pleeth erano usciti per un appuntamento. Partire per l’Africa era un’idea tutta sua, però adesso gli sembrava quasi che qualcuno gli avesse messo le ali ai piedi. — A pensarci meglio, potrei bere qualcosa.

— Benissimo. — Ritchie si fregò le mani, mostrò in un sorriso l’arcata dentaria stretta. — Dove andiamo?

— Da Beaumont — rispose Carewe, pensando alle pareti color tabacco del locale, alle sedie imbottite, al whisky invecchiato dieci anni.

— Balle. Forza, ti porto io in un bel posticino. — Ritchie afferrò l’estremità del proprio sospensorio, lo puntò con aria teatrale verso la porta e corse avanti, come attirato da una forza invisibile. Le gambe sottili ma muscolose gli fecero attraversare l’atrio in pochi passi. La sua marcia fu sottolineata dalle risate di un gruppo di ragazze che stavano spuntando da un corridoio laterale. C’era anche Marianne Toner.

— Non ho ancora potuto dirtelo, Marianne — disse Carewe. — Oggi è il mio ultimo giorno qui…

— Anche il mio — lo interruppe lei, gli occhi puntati sulla figura ormai lontana di Ritchie. — Addio, Willy.

La ragazza si girò, indifferente. La mano di Carewe corse alla pelle glabra della faccia. Fissò Marianne, oltraggiato, poi si lanciò verso la porta, all’inseguimento di Ritchie. Ritchie abitava vicino alla Farma, e guidava un’automobile dal tetto basso. Carewe la trovò strana e più scomoda della sua pallottola. Si accomodò a fianco dell’altro, e per tutta la durata del breve viaggio restò a guardare fuori dal finestrino, depresso. Marianne Toner gli aveva tirato un colpo allo stomaco: non lo considerava più un vero essere umano. Ma, se fosse stato davvero freddo, si sarebbe sentito così urtato? Athene era sua moglie, e in un certo senso lui si aspettava già di vederla trasformata; Marianne era semplicemente una donna che non perdeva occasione per dichiararsi disponibile, ma Carewe, a livello più o meno inconscio, si era convinto che il fatto di essersi disattivato non avrebbe cambiato niente nella loro amicizia.

— Eccoci qua — disse Ritchie, svoltando in un parcheggio.

— Qua dove?

— Al “Tempio di Astarte”.

— Andiamo via — sbottò Carewe. — I bordelli non mi interessavano molto nemmeno quando ero attivo, e…

— Calma, Willy. — Ritchie spense il motore a turbina. — Non sei obbligato a salire in camera, e non ti dispiace se io guadagno qualche soldo, vero?

Carewe provò di nuovo la sensazione di essere manipolato, guidato da altri come una pecora; ma scese dall’auto e si avvicinò all’entrata del tempio. Una ragazza snella, coperta da un abito a perline luminose blu-viola, si avvicinò ai due. In mano aveva una specie di salvadanaio. Fissò la faccia liscia di Carewe e si disinteressò immediatamente di lui. Si girò verso Ritchie, che si tolse di tasca un biglietto da cento neo-dollari e lo infilò nel salvadanaio.

— Astarte vi invita a entrare — sussurrò la ragazza, e spalancò la porta sul grande bar che occupava l’intero pianterreno del locale.

— Non afferro — disse Carewe. — Credevo che in questi posti fossero le donne a pagare gli uomini.

Ritchie sospirò. — Ma voi contabili avete tutti la testa fra le nuvole? Certo che le donne ti pagano, però la casa deve guadagnarci una percentuale. I cento bigliettoni d’ingresso servono a mantenere ben frequentato il locale e a pagare le spese. D’altronde, un tipo come me riesce a guadagnare qualcosa con quello che mi danno le ragazze.

— Oh! E quanto ti danno? Ritchie fece una scrollata di spalle molto teatrale, si avviò verso il banco, in un’oscurità densa di molti colori. — Venti neodollari a prestazione.

— Adesso capisco come fa a guadagnarci la casa — commentò acidamente Carewe.

— Cosa vorresti dire, coglione d’un freddo? — chiese Ritchie. — Credi che non riuscirò a recuperare quei cento neo-dollari? Aspetta e vedrai, coglione d’un freddo. Cosa bevi?

— Whisky.

Ritchie raggiunse il banco a specchi, appoggiò il disco di credito su una pupilla elettronica. — Uno scotch e uno sputafuoco — disse al microfono incorporato. Subito uscirono due bicchieri incrostati di ghiaccio. Uno dei due era circondato da un alone rosa, a indicare che conteneva qualcosa di diverso dal semplice alcol. Carewe prese l’altro bicchiere e sorseggiò il liquore, osservando l’ambiente. Quasi tutti i clienti erano attivi di età variabile. Le ragazze della casa, tutte coi soliti vestiti di perline luminose, si aggiravano fra tavoli e separé, simili a lingue di fuoco solidificato. I freddi erano pochi. Comunque Carewe si sentì sollevato scoprendo che vestivano tutti normalmente e chiacchieravano fra loro con perfetta disinvoltura.

— Calmati, Willy. — Sembrava che Ritchie gli avesse letto nel pensiero. — Questo è un locale per bene. Nessuno ti farà proposte.

I dubbi di Carewe su quella serata con Ritchie crebbero di colpo. — Io non credo poi molto alla necessità di tabù sociali — disse, calmo, — ma non ti ha mai detto nessuno che i maschi inattivi sentono una profonda avversione al fatto di essere ritenuti omosessuali potenziali?

— Chiedo scusa, professore. Ma cosa ho detto?

— Perché qualcuno dovrebbe farmi delle proposte?

— Ti ho chiesto scusa. — Ritchie bevve quasi tutto il suo sputafuoco e sorrise. — Non scaldarti, coglione d’un pirla. Io penso semplicemente che bisognerebbe infrangere tutti i tabù. È l’unico modo intelligente di vivere.

— Tutti i tabù?

— Già.

— Ne sei sicuro?

— Certo. — Ritchie appoggiò il bicchiere sul banco. — Beviamo qualcos’altro.

— Prendi il mio whisky. L’ho appena assaggiato. — Carewe afferrò la calzamaglia di Ritchie all’altezza del petto, la tirò verso di sé, vuotò il bicchiere dentro la scollatura, poi lasciò andare il tessuto elasticizzato.

— Cosa diavolo… — La gola di Ritchie sembrava squassata dal passaggio delle parole. — Cosa diavolo stai facendo?

— Infrango il tabù che impedisce di versare un liquore addosso a un altro. Anch’io voglio vivere con intelligenza.

— Sei pazzo! — Ritchie abbassò gli occhi, fissò il liquido che gli stava uscendo dal fondo della calzamaglia. Infuriato, strinse i pugni. — Io ti riduco a pezzettini.

— Se ci provi — disse Carewe, serissimo, — ti prometto che non rivedrai mai più i cento neodollari che hai pagato per entrare qui.