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— Credi? — Parma rise di nuovo. — Se vuoi la mia opinione, non l’hanno proibito solo perché si tratta dell’unica arma onnipresente nel mondo, sempre usata da tutti. Mai sentito parlare dei disordini di Cuba del secolo scorso, durante i tre anni di siccità? Non è una cosa a cui abbiano fatto molta pubblicità, però direi che l’America conosceva già il controllo meteorologico e che l’ha usato.

— Ma se hai appena detto…

— Torniamo al giorno d’oggi. Basta avere le risorse che garantiscano campi di controllo estesi e computer abbastanza in gamba da prevedere tutte le possibili interazioni, e si può buttare in piedi una guerra calma, di quelle proprio bastarde. Si può rovinare il raccolto di un’intera nazione, causare inondazioni, far diventare il clima così caldo e umido che la gente che si fa la riga dei capelli a destra comincia a odiare quelli che se la fanno a sinistra. È una guerra perfetta, William.

— Ancora non ho capito da che parte stai tu.

— Non importa. Io faccio il mio lavoro. Mi chiamano Parma della Farma.

Le luci davanti a loro crebbero improvvisamente. Arrivarono a un’altra radura circondata da edifici prefabbricati di varie dimensioni. Parma frenò davanti all’ultimo chalet di una fila doppia che formava una strada in miniatura, delimitata da alberi.

— Questa è casa tua — disse. — L’abbiamo messa su oggi pomeriggio. Non ci sono ancora i servizi, comunque puoi scaricare i bagagli. I ragazzi la finiranno intanto che noi due ce ne stiamo al club.

Carewe esitò. — Vorrei rinfrescarmi.

— Al club, William. Perdiamo tempo per la bevuta.

Carewe scese, spalancò la porta dello chalet e depositò la valigia fra quelle tenebre che sapevano di resina. Erano trascorse solo ventiquattr’ore da quando era uscito con Ritchie per la sua prima, strana serata da scapolo. Sperava solo che non lo aspettasse la stessa identica cosa. “Cosa starà facendo Athene ora, in questo istante?” Tornò sul camioncino. Si sentiva più che mai abbandonato a se stesso. Il veicolo ripartì, si fermò davanti a una geocupola abbastanza grande che era la sede del club. L’interno circolare, col banco al centro, aveva l’aria inconfondibile del locale gestito da una ditta per i propri dipendenti. Sul pavimento a sezioni orizzontali, tavoli e sedie pieghevoli. In una bacheca erano appesi diversi fogli: alcuni erano senza dubbio comunicazioni ufficiali, altri preannunciavano serate di follia ed erano decorati alla bell’e meglio da disegnatori dilettanti. Faceva caldo, ma Carewe rabbrividì. Quando tornò dalla toilette, Parma si era seduto a un tavolo e aveva davanti due boccali di birra da mezzo litro.

— Prima delle otto non servono altro — spiegò. — Il che dovrebbe impedire a gente come me di perdere la testa troppo presto. — Sollevò il bicchiere, lo vuotò d’un fiato, con un sorriso sdegnoso. — È di una misura molto antidemocratica e del tutto idiota.

Carewe assaggiò la birra: era fresca, ottima di sapore. Senza riflettere, imitò Parma, socchiudendo gli occhi al passaggio del liquido in gola.

— Ehi, ci sai fare con la pinta — disse Parma. La pinta era caduta in disuso come unità di misura, ma era diventata una specie di simbolo per i bevitori. — Ordina tu.

Carewe si fece dare altri due boccali dal barista, un freddo dall’aria annoiata che serviva da bere senza la minima grazia, probabilmente per far capire a tutti che di giorno svolgeva un altro lavoro, molto più importante. Nel club non c’era molta gente, ma guardandosi attorno Carewe scoprì una percentuale di freddi molto più alta di quanto non si aspettasse. Ricordò che Parma non aveva fatto la minima allusione al suo aspetto da freddo, anzi lo aveva trattato con un cameratismo imparziale che aveva risanato diverse ferite del suo ego. Per un attimo, si chiese se avrebbe sopportato meglio l’atteggiamento diverso dei suoi colleghi d’ufficio se lo avessero disattivato sul serio.

— Ci sono più freddi di quanto non pensassi — disse, appoggiando il bicchiere sul tavolo. — Come mai? Sublimazione?

— Non chiederlo a me — rispose Parma, indifferente. — Io faccio il mio lavoro e basta.

Parma bevve metà birra, infilando il naso chiazzato di vene nel boccale, e Carewe si accorse che gli piaceva sempre di più. Sedette, cominciò a sorseggiare la birra, che stranamente gli parve più forte della prima. In seguito, col passare delle ore, ogni boccale sembrò più forte del precedente però, come per magia, bastava portarselo alle labbra per veder sparire la birra. Carewe, che di birra non aveva molta pratica, si meravigliò di quelle sue doti segrete. Il locale si riempì poco per volta, cominciò a risuonare di voci poderose, e prese a girargli attorno. Le facce diventarono maschere bidimensionali, inutili; poi lui e Parma si ritrovarono all’esterno, fra le tenebre cosparse di luci. Carewe non aveva idea di dove si trovasse il suo chalet, ma l’altro lo guidò fino alla porta. Si strinsero la mano, poi Parma scomparve nella notte, senza una parola.

Carewe aprì la porta, improvvisamente desideroso di coricarsi, e abbassò l’interruttore della luce. Lo chalet rimase al buio. Ricordi vaghi gli dissero che ormai la sua abitazione doveva essere perfettamente funzionante. Quando era entrato, ore prima, aveva intravisto un quadro di comando di fronte alla porta. A mani protese, lo raggiunse, sentì sotto le dita la plastica dell’interruttore centrale. L’interruttore obbedì al suo tocco e lo chalet fu invaso dalla luce. Poi si accorse che mancava il pannello di protezione.

Per un attimo eterno fissò, senza capire, i fili ad alto voltaggio su cui solo il caso gli aveva impedito di mettere le mani. Incapace di provare sorpresa o rabbia, raggiunse lentamente il letto e si sdraiò.

Si addormentò subito. Nei sogni, il suo fragile corpo di vetro era minacciato da grandi macchine, da alberi a gomito che avanzavano ciecamente verso di lui ed erano capaci di ridurlo in polvere.

8

Il sole del mattino lanciava frecce di fuoco sulle palpebre di Carewe. Si alzò, disfatto, con le tempie che gli pulsavano, e raggiunse il minuscolo bagno dello chalet. Svegliandosi, il suo primo impulso era stato quello di rimettersi a dormire; ma Parma gli aveva detto che quel mattino doveva vedere subito il coordinatore della squadra e farsi registrare tra gli effettivi. Aprì la valigia, tirò fuori una scatola delle capsule di ossigeno e acido ascorbico e ne inghiottì una. Lo strato di gelatina che avvolgeva le capsule gliela bloccò nella trachea. Stava per andare a prendere un bicchiere d’acqua, quando vide, con la coda dell’occhio, il quadro di comando.

Le punte dei fili erano scoperte, minacciose. Con una smorfia, Carewe si guardò attorno, scoprì su una sedia il pannello di protezione. I suoi ricordi erano confusi. La sera prima, era rientrato come uno zombie, e solo la pura e semplice fortuna gli aveva impedito di toccare i fili ad alto voltaggio. La sua fronte si coprì di sudore freddo, poi Carewe grugnì davanti alla propria stupidità: senza il pannello, l’interruttore non si poteva abbassare, e non ci sarebbe stato passaggio di corrente.

Però le luci dello chalet erano accese. L’interruttore si era abbassato sul serio.

Stringendo le tempie per calmare le continue pulsazioni, si avvicinò al quadro comandi e ne osservò l’interno. La levetta che impediva all’interruttore di entrare in funzione prima di essere collegato al pannello di sicurezza era piegata di lato, non funzionava. “Qualcuno ha tentato di uccidermi” pensò immediatamente, “ed è tutta colpa di Athene.” Nel giro di un secondo, il buonsenso prese il sopravvento, e lui avvertì l’odio enorme, smisurato, che solo un immortale può provare quando la sua vita si è trovata in pericolo. Il tecnico che gli aveva installato l’impianto elettrico doveva pagarla cara, carissima.