Carewe buttò i vestiti sporchi nell’eliminatore, indossò tunica e calzamaglia nuove. Il mal di testa gli era quasi passato. Uscì. Una luce violenta lo investì da tutte le direzioni, come se il cielo del mattino fosse pieno di soli. L’aria era calda, il profumo di fiori sconosciuti gli riempiva i polmoni. Percorse la breve strada, raggiunse lo spazio circolare deserto a eccezione di due uomini con le uniformi delle Nazioniunì, immobili all’ombra di una tenda. Il camioncino di Parma era ancora parcheggiato davanti al club. Carewe stava per chiedere indicazioni a uno dei due, quando notò le insegne delle Nazioniunì su un altro edificio al lato opposto delle radura.
Dentro, trovò un’impiegata dietro un banco. Alle sue spalle, le cabine familiari di un terminale di computer. Paratie di plastica formavano uffici minuscoli all’interno della cupola.
— Posso esservi utile? — La ragazza era mezzo addormentata e non dimostrava eccessivo interesse.
— Sono del contingente della Farma. Mi chiamo Carewe.
— Sì?
— Voglio vedere il tecnico che ieri ha installato il pannello elettrico nel mio chalet. — Nascose la faccia depilata agli occhi irrequieti della ragazza.
— Volete sporgere lamentele?
— Sì. La sua negligenza criminale per poco non mi ha fatto morire fulminato.
— Mi spiace, ma il tecnico è ripartito stamattina con la prima navicella.
— In questo caso, potete dirmi come si chiama? Voglio fargli rapporto.
— Fare rapporto a chi?
— Non so. A qualcuno che possa fargli passare dei guai.
— Sarà meglio che parliate col signor Kendy, il coordinatore. — La ragazza aveva un tono di rimprovero, come se Carewe stesse infrangendo una legge. Gli fece cenno di seguirla in uno degli uffici, dove lui trovò, seduto a una scrivania, un giovane freddo con folti capelli biondi. Per essere un freddo, Kendy era molto muscoloso. Il suo aspetto roseo indicava una salute perfetta. Gli strinse la mano in modo fermo, amichevole; ascoltò con attenzione la sua storia e prese appunti.
— Non dubitate, andrò a fondo — gli promise. — Ora, signor Carewe, è già alquanto tardi. Siete pronto a cominciare a lavorare per noi?
— È per questo che sono qui. — Quando sorrise, Carewe ebbe l’impressione che le sue labbra fossero morte. — Però, a essere sincero, non so cosa potrei fare esattamente. Sono appena arrivato…
— Non c’è bisogno di scusarsi. È proprio la sindrome di Beau Geste che ci permette di andare avanti, in larga misura.
Kendy ripiegò un foglio e con l’angolo della carta cominciò a picchiettarsi i denti, che erano regolari e bianchissimi.
— Voi lavorate per la Farma, quindi potete aiutarci somministrando il biostatico della vostra ditta. È l’E-dodici, no?
— Ma io sono un contabile.
— La contabilità la tengono a New York — ribatté Kendy, impassibile ma leggermente ironico.
— Lo so, però pensavo…
— E per mandare avanti questo ufficio non mi serve assistenza.
— Non intendevo dire… — Carewe riordinò le idee. — Quando comincia la spedizione?
— È già iniziata. Abbiamo a che fare con un gruppo che si è staccato dall’antica tribù Malawi. Sono molto più resistenti di tanti altri alle nostre magie atmosferiche. — Kendy scrisse il nome di Carewe su un modulo prestampato e glielo porse. — Presentatevi con questo alla cupola magazzino. Vi daranno tutto l’equipaggiamento. L’idea sarebbe di continuare a far piovere fino al termine dell’operazione e agire al riparo del vapore che si alza dal terreno. E questo — Kendy mise un modulo blu accanto al primo, — vi procurerà un’automatica.
— Una pistola?
— Sì. Del tipo ipodermico, nel caso abbiate scrupoli contro la violenza. Non è pratico usare armi a un colpo solo per somministrare un’immortalità di massa.
L’anfibio a due posti che gli avevano assegnato al centro automezzi delle Nazioniunì procedeva tranquillo sul sentiero sconnesso. Carewe procedeva verso nord, in direzione del temporale, immobile sull’orizzonte. Guidava automaticamente, quasi vergognandosi di aver scoperto in sé il senso dell’avventura. A quell’ora, se fosse stato un giorno normale, si sarebbe trovato dietro la scrivania alla Farma, a fingere di controllare calcoli eseguiti dal computer, in realtà limitandosi a contare i minuti che mancavano all’intervallo per il pranzo. Invece, vestito dell’uniforme delle Nazioniunì, guidava un veicolo sconosciuto su una strada che non aveva mai percorso, col sole africano che scendeva tra le fronde della foresta.
Scoprì, ancora una volta, che per lui l’arrivo fisico in un posto nuovo era un fatto di nessuna importanza: il vero significato stava nel suo arrivo psicologico, spirituale. E quest’ultimo era sempre ritardato, a volte di giorni o persino di settimane, dal fatto che in compagnia di altre persone lui non riusciva mai a essere veramente se stesso, il che gli impediva di reagire all’ambiente nuovo. Nei suoi primi anni di lavoro, una volta si era recato a Polar City per un seminario di tre settimane. Le aveva trascorse tutte in una specie di delusione ovattata perché non riusciva a provare il minimo senso di cambiamento, di diversità. Ma l’ultimo giorno, libero dal programma di lezioni e dalla compagnia insistente degli altri contabili, si era allontanato dalla città, aveva camminato per più di un chilometro e mezzo in quel paesaggio antico. Nel preciso istante in cui aveva aggirato una cresta di banchisa, bianca da accecare, perso ogni contatto visivo con la civiltà, lui, Will Carewe, aveva scoperto di trovarsi in Antartide, quasi precipitato lì da un incantesimo che lo aveva rapito alla sua esistenza normale solo un secondo prima. La bellezza eterna e nemica del posto lo aveva paralizzato, gli aveva bloccato il respiro in gola, riempito gli occhi di visioni che non sarebbero mai svanite.
In quel momento, trovandosi di colpo solo, ebbe una rivelazione simile; e aggirò con l’anfibio cespugli di rubiacee dai colori vivacissimi, che coi loro calici lobati riempivano l’aria di urla silenziose, solo visive. Carewe capì di avere davanti a sé pericoli, avventure, esperienze nuove; e se il futuro più immediato gli riservava tante cose, quanto non gli avrebbero dato un milione di domani? La sensazione di essere nel pieno della Vita, di essere intriso delle sue essenze multicolori, non poteva certo ripagarlo degli eventi che lo avevano condotto a quel punto; però era “vivo”. Accorgendosi che in lui si stava scatenando una reazione emotiva equivalente agli scoppi improvvisi d’ilarità che si verificano tanto spesso nelle situazioni più disperate, cercò di abbassare la propria temperatura psichica; ma, quando l’anfibio s’infilò in un fiume alquanto ampio apparso all’improvviso, Carewe fischiettava. Le acque del fiume erano scure e agitate, probabilmente a causa del temporale interminabile che il controllo meteorologico aveva scatenato nelle vicinanze.
Rallentò un poco la velocità del motore, per non sollevare troppa fanghiglia, e puntò il muso verso la continuazione del sentiero, sulla riva opposta. L’anfibio avanzò sicuro sulle acque turbolente; poi, a metà fiume, il motore si spense. Non ci fu nessuna indicazione preliminare, non un rallentamento inspiegabile, né un cambiamento nel ronzio della turbina: solo un arresto totale e improvviso. L’anfibio cominciò ad affondare. Si udì un’esplosione sibilante quando il metallo rovente del motore venne sommerso, e tre secondi più tardi Carewe si trovò in fondo al fiume, chiuso in una bolla di plastica marrone scuro.
Urlò, chiese aiuto.
Tempo dopo, si rese conto che urlare non bastava. Si costrinse a chiudere la bocca. Il campo elastico d’emergenza gli aveva impedito di andare a sbattere contro il quadro dei comandi, e la superba tecnica di costruzione della cabina di guida faceva sì che non entrasse acqua; però, rimanendo lì sarebbe morto soffocato. Sganciò la serratura della porta e la spinse. Non successe niente. Terrorizzato all’idea che l’impatto avesse distorto la struttura della porta, appoggiò la spalla alla plastica durissima.