Un filo d’acqua gli colò sulle caviglie, ma la porta, bloccata dalla pressione esterna, non si mosse. L’unica cosa da fare era pareggiare la pressione esterna con quella interna lasciando entrare acqua; ma, quando Carewe si sentiva ormai distrutto per le spallate contro la plastica, il pavimento della cabina era appena umido. Pensò di rimettersi a urlare; poi accettò il fatto che il milione di domani che sognava erano affidati esclusivamente alle sue mani.
Nella cabina non entrava acqua eppure prima, mentre viaggiava, l’aria continuava ad affluire dall’esterno, il che significava che le prese d’aria dovevano essersi chiuse automaticamente al primo contatto con l’acqua. Era possibile che ce ne fosse qualcuna non in perfetto ordine? Con una certa difficoltà tolse dal tettuccio il pannello di protezione. Apparvero tubi di plastica che uscivano tutti da un raccordo centrale. Evidentemente, il raccordo usciva all’esterno del veicolo. Afferrò i tubi e provò a tirarli. Si piegarono leggermente, ma non cedettero. Carewe perse di nuovo il controllo di sé. Si buttò sul sistema di ventilazione, tirò e torse con tutta la forza che aveva; poi una fitta al petto gli disse che la riserva d’aria della cabina era quasi esaurita. Le tubature in plastica, costruite in conformità agli standard delle Nazioniunì, non mostravano di avere subito il minimo danno.
Ricadde sul sedile. I suoi polmoni pompavano come un macchinario antico, la sua bocca emetteva suoni rauchi, animaleschi, sconcertanti. Era davvero la fine? I suoi occhi si posarono su un interruttore posto sull’orlo del tubo aspirante del ventilatore. Si protese, lo spostò con la punta di un dito, e l’acqua cominciò a piovere dalle griglie del ventilatore.
Dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per restare immobile finché la cabina non fu quasi piena. Quando provò di nuovo la porta, l’aria che restava nel poco spazio tra l’acqua e il tettuccio era praticamente irrespirabile; ma questa volta la porta si aprì senza troppe difficoltà. Si allontanò dal veicolo, raggiunse la superficie del fiume e nuotò fino a riva. La forte corrente lo trascinò un po’ verso il basso, ma riuscì a raggiungere la terraferma e a raggiungere il sentiero. Le acque scure, trasformando la gravità di un movimento apparentemente orizzontale, scorrevano veloci e silenziose sopra il punto dov’era affondato l’anfibio, cancellandone ogni traccia. Se non si fosse accorto dell’interruttore manuale per il ventilatore, sarebbe rimasto là sotto; e nessuno, prima di sera, avrebbe pensato di andarlo a cercare…
Carewe scoprì di trovarsi sulla riva nord del fiume. La colonna di temporale si alzava sull’orizzonte. L’armatura in plastica leggerissima che gli avevano dato alla base era rimasta in fondo al fiume, però lui aveva ancora la borsa che conteneva la pistola ipodermica. Decise di proseguire il viaggio a piedi, anche se indubbiamente aveva un’ottima scusa per tornare indietro. “Il secondo tentativo di omicidio nel giro di ventiquattro ore” gli disse una voce interiore, “basterebbe a scoraggiare chiunque.” Con le scarpe fradice, s’incamminò respingendo automaticamente l’idea, che però gli si ripresentò subito, senza nessuna coloritura emotiva, come una conclusione logica pura e semplice. Tutti i mezzi delle Nazioniunì rispondevano ai canoni più sofisticati della tecnologia del ventiduesimo secolo; quante possibilità esistevano che il motore subisse un guasto proprio nell’unico punto potenzialmente pericoloso del suo percorso? E quali livelli astronomici raggiungevano queste possibilità, prendendo in considerazione anche la mancanza del pannello di protezione dall’impianto elettrico dello chalet?
Eppure, lì al campo nessuno aveva motivo di ucciderlo. Fino al giorno prima, nessuno di quegli uomini l’aveva mai visto. Carewe si riempì i polmoni della luce del sole. Notò che l’uniforme aveva assorbito pochissima acqua del fiume: era quasi asciutto, per quanto malconcio. Alzò sopra la testa il pannello solare della tunica, per respingere il caldo sempre più forte, e accelerò il passo. Il rumore del temporale crebbe d’intensità, si trasformò in una serie di sibili e gemiti mostruosi che spezzavano la quiete del mattino. In alto, ai limiti della stratosfera, uomini e macchine lavoravano per manipolare gli elementi e, attraverso gli elementi, i cervelli di altri uomini. Quel concetto sconcertava Carewe, che sapeva cosa stava accadendo, ne era parte. Si chiese come si fossero sentiti i primitivi della tribù Malawi scoprendo che il cielo stesso si era rivoltato contro di loro.
Davanti a lui, sul sentiero, cominciarono a salire i vapori. Intravvide i profili di uomini e veicoli. Adesso il temporale riempiva di grigio tutto il suo campo visivo; tentacoli freddi di aria umida gli sfioravano la faccia, mentre il caldo enorme del sole continuava a bruciargli la schiena. Nell’aria, un senso d’attesa. Il creato era un ambiente artificiale, una scena illuminata dai riflettori, e i registi, in volo suborbitale, controllavano gli effetti. Carewe tirò più in su la cerniera dell’uniforme, fin sotto la gola.
— Come vi chiamate? — La voce proveniva dalla porta aperta di una roulotte immobile.
— Carewe. Sono della Farma. — Si cercò in tasca il documento d’identità.
— Okay. Passate pure. Il signor Storch vi sta aspettando.
— Grazie.
— Lo troverete un chilometro più in giù, lungo il sentiero. — L’uomo lasciò sporgere in fuori la faccia barbuta, scrutò incuriosito Carewe. — Dov’è il vostro anfibio?
— L’ho perso per strada. Un incidente. Potete darmi un passaggio?
— Mi spiace, ma da questo punto in avanti non possono più transitare veicoli. — L’uomo scomparve immediatamente.
Carewe scrollò le spalle e si incamminò. Nel giro di un minuto, la visibilità si era ridotta a una cinquantina di passi e la pioggia gli cadeva tutt’attorno; ma il pannello solare la defletteva, avvolgendolo in un bozzolo asciutto. Dopo cinque minuti di marcia nel fango, raggiunse un gruppo di una trentina d’uomini, tutti in armature verde pallido. Uno si staccò dagli altri e venne verso di lui. Era un attivo robusto, con occhi pazienti e curiosi e una faccia bruciata dal sole che riusciva a essere bella nonostante il naso piegato di lato e una cicatrice bianca che interrompeva la linea del labbro superiore.
— Sono Dewery Storch — disse, tendendo la mano. — Mi avevano avvisato del vostro arrivo, ma dove avete l’armatura?
Carewe gli strinse la mano. — Nel mio anfibio.
— Bisognerà che torniate a prenderla. Non vi hanno detto…
— Impossibile. L’anfibio è finito in fondo al fiume. È affondato.
— Come sarebbe a dire, affondato? — Gli occhi castani di Storch si fissarono in quelli di Carewe.
— Sarebbe a dire che è colato a picco nel fiume. — Carewe cominciava a spazientirsi. — Il motore si è spento di colpo. È già una fortuna se ho salvato la pelle.
Storch scosse piano la testa. — Continuo a non capire. Dite che il motore si è spento in mezzo al fiume, ma i galleggianti d’emergenza non si sono gonfiati?
— Galleggianti d’emergenza? — La mascella di Carewe tremolò. — Nemmeno per idea. L’anfibio è affondato come un sasso. — In silenzio, assimilò quell’informazione nuova. Se il congegno d’emergenza non aveva funzionato in concomitanza con un incidente già strano di per sé, le probabilità che si trattasse di un caso diventavano ridicolmente basse.
— Bisognerà indagare sulla faccenda — disse Storch. — Devono avervi dato un veicolo che era in manutenzione. Guasti del genere non dovrebbero verificarsi.
— Lo pensavo anch’io — ribatté Carewe, gelido. — Per poco non mi sono ammazzato.
Storch lo squadrò con aria preoccupata. Carewe ne fu confortato. — Non vi chiederò di avventurarvi nel villaggio con noi, per oggi. Se tornate indietro lungo il sentiero potete farvi dare…