— Mi dispiace — disse Carewe, anche se capiva che era troppo poco. Stava tornando dagli uomini delle Nazioniunì, quando la ragazza uscì dalla capanna a una velocità spaventosa. Gli saltò addosso, ci fu uno scintillio metallico nella sua mano, poi la donna si tirò indietro. Carewe fissò la sua faccia trionfante per un lungo momento, prima di abbassare gli occhi a guardare il coltello che gli usciva dal petto.
Quando gli uomini delle Nazioniunì tornarono a prenderlo, lui era in ginocchio nel fango e continuava a scuotere la testa, incredulo.
9
— Era un coltello molto vecchio — commentò Dewery Storch. — È questo che vi ha salvato.
Carewe fissò sobriamente il tettuccio della roulotte in cui lo avevano coricato. — Come sto?
— Sopravviverete.
La lama era sottilissima. A furia di affilarlo, il coltello è diventato una specie di fioretto. Insomma, come arma non valeva un granché.
— Per fortuna. — Siccome non avvertiva dolore, Carewe tentò di mettersi a sedere sul lettino.
— Piano, piano — disse Storch, costringendolo di nuovo a coricarsi. — Avete il polmone destro perforato, e il medico lo ha disattivato.
— Disattivato! Ma allora…
— È solo una misura temporanea. Per permettere al polmone di riprendersi, tutto qui. — Storch girò la testa verso qualcuno al di fuori della visuale di Carewe. — Giusto, dottore?
— Giustissimo — rispose una voce maschile. — Non dovete allarmarvi, signor Carewe. Per un po’ il polmone ha sanguinato, ma ormai abbiamo fermato la perdita e tolto tutto il sangue che era uscito. Adesso bisogna solo lasciar riposare il polmone. — Capisco. — Carewe, al pensiero che uno dei suoi polmoni gli penzolasse inerte nel petto, si sentì male. Si mise a respirare, concentrando l’attenzione sulle funzioni interne del corpo. Per la prima volta in vita sua, si accorse che il processo d’inspirazione non partiva dai polmoni, ma dai muscoli del torace. Il torace si espanse, gonfiando le borse organiche preposte alla respirazione, facendo entrare l’aria dal naso e dalla bocca; solo che, nel suo caso, funzionava solamente un polmone. Quasi aspettandosi di sentirsi soffocare, Carewe si concentrò sul processo della respirazione mentre lo adagiavano su una barella e lo trasportavano su un’ambulanza.
Alla base, lo sistemarono in una cupola di dimensioni medie che fungeva da infermeria. Accanto a lui, c’erano altri tre letti, tutti vuoti. Il pomeriggio trascorse tranquillo. Ogni trenta minuti ricevette la visita di una infermiera, e un medico, il dottor Redding, si fece vivo due volte per vedere come stava e per tranquillizzarlo: lo avrebbero fatto ripartire da lì il giorno dopo. Tutti e due trattarono Carewe con una gentilezza neutra che servì solo a farlo sentire depresso e inutile. Era noto che le squadre Primitivi erano sempre a corto di personale, e che quindi in genere non rifiutavano nessuno; però, sin dall’inizio, lui aveva avuto l’impressione che gli altri si ritenessero professionisti costretti, di tanto in tanto, ad accettare la buona volontà di qualche dilettante. Kendy aveva definito la cosa “sindrome di Beau Geste”. Carewe non aveva idea di chi fosse Beau Geste; però nutriva il sospetto che il suo exploit avrebbe scatenato parecchie risate, la sera, al club Nazioniunì. Quindi, si concesse il lusso di addormentarsi, sperando di sognare di Athene e di un passato tranquillo, caldo…
Il mattino dopo, mentre falene bianche sbattevano contro le finestre, ricevette tutta una serie di visite: Kendy, Storch, Parma, e alcune facce che ricordava vagamente dalla sbornia della prima sera. Parma fu l’unico a esprimere un dispiacere genuino quando seppe che Carewe stava per ripartire. Con espressione solenne, gli offrì di portare un po’ di birra dal club per celebrare la partenza. Carewe gliene fu riconoscente, ma rifiutò; e quando l’altro fu uscito, chiese un sedativo all’infermiera. Inghiottì la capsula e fissò stoicamente il soffitto, aspettando che facesse effetto.
Si svegliò molto più tardi, sicuro che qualcosa non andasse per il verso giusto. Per un attimo restò a fissarsi il polso inerte; poi ricordò che la zona di Nouvelle Anvers era troppo lontana dai trasmettitori di segnali perché l’orologio tatuato potesse funzionare. Qualcuno si avvicinò al suo letto. Un uomo giovane, con la carnagione scura, gli tendeva un bicchiere d’acqua e una pillola azzurro pallido.
— Scusate se vi disturbo, signor Carewe — disse lo sconosciuto, a voce bassa. — È ora di prendere questa pastiglia.
— A cosa serve? — chiese Carewe, ancora mezzo addormentato.
— Il dottor Redding non vuole correre rischi con una ferita. Non è igienico, da queste parti.
— Be’, sì, certo… — Carewe si appoggiò su un gomito, prese il bicchiere, accettò la pastiglia senza ulteriori commenti. Stava per mettersela in bocca, quando notò che le unghie dello sconosciuto erano luride. La luce era fioca, ma riuscì lo stesso a mettere a fuoco gli occhi; e allora vide che il dorso delle mani dell’altro era solcato da vene di sporcizia.
— Un attimo — disse, cercando di vincere l’effetto del sedativo. — Siamo sicuri che il dottor Redding voglia farmi prendere questa pastiglia?
— Ne sono certissimo.
— E se rifiutassi?
— Sentite, signor Carewe… — Quelle parole avevano un tono d’urgenza. — Non creiamo problemi. Prendete la pastiglia, eh?
— La prenderò quando avrò visto il dottor Redding. — Tentò di guardare in faccia lo sconosciuto, ma testa e spalle erano oltre il cono di luce proiettato dalla lampada sul comodino.
— Bene, signor Carewe. Non voglio stare a discutere.
L’uomo protese la mano, e Carewe si lasciò cadere la pastiglia nel palmo. Un secondo dopo, il corpo vestito di bianco gli si precipitò addosso. Una mano robusta gli premette sulla bocca, schiacciandogli la pastiglia contro i denti. Mortalmente certo che per lui sarebbe stata la fine se avesse ingoiato la pastiglia, Carewe tentò di scrollarsi di dosso l’avversario; ma le sue ginocchia erano intrappolate dalle coperte. La mano dell’altro gli chiuse le narici, privandolo dell’aria, il che significava che poteva resistere solo per pochi secondi. Carewe cominciò a vedere rosso; poi si accorse di avere qualcosa nella sinistra: il bicchiere d’acqua. Stringendolo senza esitare, lo scagliò verso quella faccia in ombra. Il vetro si frantumò, l’acqua gli scese giù per il braccio, e d’improvviso lui riuscì di nuovo a respirare. Lo sconosciuto saltò indietro, con un gemito. Si portò la sinistra sulla guancia ferita, e nella destra apparve un coltello. Carewe, freneticamente, buttò via le coperte, rotolò giù dal letto, saltò a terra e si mise a correre verso la porta, inseguito a poca distanza dal suono di altri passi. All’interno del suo petto, qualcosa ballonzolava. Una cosa umida, molliccia. Una parte del suo cervello, disgustato, capì che si trattava del polmone disattivato; ma tutta la sua attenzione era concentrata nella fuga. Non voleva ritrovarsi con un coltello nella schiena. Superò con un salto la porta, ne vide un’altra che portava a un ufficio, scattò avanti. L’ufficio era deserto. Prese da una scrivania una statuetta di legno e si girò per difendersi, ma lo sconosciuto era svanito. L’unico rumore che si udiva era lo sbattere irregolare delle porte stile saloon. Si avventurò verso il corridoio, e proprio in quel momento, nel rettangolo buio della soglia, apparve una figura vestita di bianco. Carewe alzò la sua clava improvvisata, ma si trattava soltanto dell’infermiera che conosceva già.
— Non dovreste alzarvi da letto, signor Carewe — disse la donna, scrutando sospettosa la statuetta di legno. — Cosa succede?
— Qualcuno ha tentato di uccidermi — rispose lui, affranto.
— Avete avuto un incubo. Ora tornate a letto.
— Ero perfettamente sveglio. — Le tese la statuetta. — Non avete visto nessuno uscire di corsa, un minuto fa? E poi, perché non eravate qui?