— Non temere — urlò Colleen, e lui vide avvicinarsi il suo sedile, più grande degli altri, circondato da manicotti, fili e pulsanti. — Il mondo è a forma di pera. La rotazione lo riporterà sotto di noi.
— Cos’è… cos’è successo? — gridò lui, aggrappandosi ai braccioli del sedile. A occidente, un fiume scorreva calmo. Gli parve di vedere una nuvola di fumo sulla riva più vicina. Le cime degli alberi erano vicinissime, crescevano sotto di lui a velocità vertiginosa. — Cosa ci ha preso?
— Calcolo uguale caos — rispose Colleen, mentre la sua voce quasi si disperdeva nel turbinio dell’aria.
— Attenta — l’avvertì lui, — stiamo atterrando. — Studiando il bracciolo del sedile, scoprì una minuscola cloche verticale in un incavo. Gli tornarono in mente le migliaia di volte in cui, con la massima attenzione, aveva letto il manuale di volo per passeggeri. Portando la cloche all’indietro, sarebbe aumentata la porosità del campo di forza invisibile che sorreggeva il sedile, e sarebbe aumentata la velocità di discesa. Spostandola in avanti, il campo si sarebbe intensificato; muovendola di lato, il campo si sarebbe distorto di continuo, e il sedile avrebbe seguito la traiettoria indicata dagli spostamenti.
Carewe si raggomitolò su se stesso: aveva oltrepassato le cime degli alberi più alti, stava piombando su una vallata dai contorni irregolari. Udì vagamente i rumori prodotti da altri sedili che si stavano fracassando tra le foglie; ma tutta la sua attenzione era concentrata sui movimenti minimi, apparentemente di nessuna importanza, del pollice sulla cloche, movimenti che avrebbero dovuto garantirgli la salvezza. Gli si parò davanti un albero basso. Spinse la cloche verso destra, in direzione di una radura, ma il sedile non rispose subito al comando. Piombò tra le fronde. Il sedile sussultò, tremò, rallentò, mentre i rami gli graffiavano la faccia; poi lui si trovò a terra, miracolosamente seduto. Il rumore degli altri sedili che precipitavano sugli alberi era forte. Carewe premette un pulsante. Le braccia metalliche del sedile rientrarono, lasciandolo libero.
— Ehi, ciao!
Alzò la testa. Il sedile di Colleen era appeso, di traverso, fra i rami più bassi di un albero enorme. La ragazza era sospesa a circa otto metri dal suolo, ma sorrideva.
— Tieni duro — le urlò. — Salgo a prenderti.
— Tutto a posto. Niente calcoli, niente caos. — Colleen si liberò dal sedile e si lanciò in aria. Scese a peso morto, i capelli scompigliati, le gambe che si agitavano, e atterrò in un cespuglio.
Carewe corse avanti sul terreno irregolare, aprì un varco nel cespuglio con mani tremanti. Colleen era svenuta. Un rivoletto di sangue, rosso e lucido come lacca, le solcava la fronte. Lui le sollevò la palpebra, le sfiorò il bulbo oculare. L’occhio non reagì. Stando alle nozioni di medicina di Carewe, molto limitate, la cosa significava che la ragazza era in stato d’incoscienza completa. Forse c’era di mezzo anche una commozione cerebrale. Esplorò il suo corpo con le mani, non scoprì ossa rotte. La tirò fuori dal cespuglio e la depositò sul terreno erboso.
S’inginocchiò al suo fianco e si mise a esaminare i graffi sul proprio corpo, cercando di interpretare la realtà dei fatti. L’unica spiegazione possibile era che un allucinogeno a effetto rapido fosse stato immesso nel circuito di ventilazione della navicella da un congegno a orologeria. E non si era certo trattato dell’illusogeno, o di una delle altre droghe legali, ma di qualcosa che distruggeva il senso di orientamento nello spazio: un effetto micidiale, su una navicella in volo. La droga aveva colpito per primo Carewe, forse perché il suo unico polmone stava lavorando a ritmo frenetico, e per lo stesso motivo lui se n’era liberato per primo. Colleen aveva avuto il tempo di rendersi conto di quello che stava succedendo e di catapultare i sedili fuori dalla navicella; però era ancora sotto l’effetto della droga quando erano atterrati, per cui aveva tentato di camminare in aria.
“Tentativo d’omicidio numero quattro.” E il delinquente responsabile di tutto era talmente privo di scrupoli che aveva attentato anche alla vita di una ragazza. Fu di nuovo preda di una rabbia atroce, disperata. Era stato solo un insieme di circostanze a salvarlo per l’ennesima volta, ma la fortuna non poteva durare all’infinito…
Gli si presentò un’altra idea. Dava già per scontato che quell’ultimo tentativo di ucciderlo fosse andato a vuoto, ma era proprio così? La navicella, nella sua indifferenza meccanica, aveva proseguito verso sudovest. Forse il motore, se era in grado di risucchiare l’umidità dell’aria e di trasformarla in carburante, l’avrebbe guidata al largo sull’Atlantico. In questo caso, Carewe non aveva la più pallida idea di come richiamare una spedizione di soccorso nel punto in cui Colleen e lui erano scesi. Forse si trovavano a un centinaio di chilometri dal più vicino agglomerato umano, persi in un territorio in cui dieci chilometri al giorno a piedi erano già un record. E, con una ragazza ferita da trascinarsi dietro, forse ne avrebbe percorsi molti meno.
Il ronzio degli insetti in quell’atmosfera pesante assunse un tono beffardo, crebbe sempre di più alle orecchie di Carewe, rendendogli difficile pensare. Si portò le mani alle tempie. Il fiume che aveva intravisto mentre precipitava, probabilmente il Congo, si trovava a ovest; aveva visto anche una nube di fumo, che poteva indicare un villaggio. Posò gli occhi su Colleen, le diede qualche schiaffo leggero; ma la faccia della ragazza restò immobile, come di cera. Sembrava appartenere a una sconosciuta, adesso che la sua personalità non la illuminava più. Carewe provò di nuovo la sensazione di essere appena arrivato in Africa, di essere partito da Three Springs solo da pochi secondi. La stranezza sorprendente del continente iniziava dalle zolle sconosciute che aveva sotto le ginocchia e si irraggiava in ogni direzione per migliaia di chilometri, in un insieme di mistero e ostilità. E lui, Will Carewe, non era in grado di reagire. In Africa non possedeva nessun diritto, nemmeno quello di vivere; quindi, non aveva obblighi. Quel senso di rassegnazione durò pochi secondi; poi venne sostituito dalla rabbia totale che stava diventando un tratto caratteristico delle sue reazioni mentali.
Passò le braccia sotto il corpo di Colleen, la sollevò delicatamente, e s’incamminò verso ovest, verso il fiume.
Mancava forse un’ora al tramonto, per cui era impossibile arrivare al fiume prima di sera, ma sentiva il bisogno assoluto di muoversi. Nel giro di pochi minuti si trovò inondato di sudore, e il polmone funzionante sembrava sul punto di esplodere. Procedeva ancora più lentamente di quanto non avesse immaginato. Le variazioni in altezza nel terreno della foresta erano dell’ordine di parecchi metri; e quando non erano i rampicanti o la vegetazione del sottobosco a bloccargli il cammino, la semplice impossibilità di scalare pendii troppo ripidi lo costringeva a deviare. Continuò a procedere automaticamente. Scoprì che, durante le soste, era meglio appoggiare Colleen al tronco di un albero anziché coricarla a terra, perché almeno si risparmiava la fatica di sollevarla di peso ogni volta. Gli stridii continui, in sottofondo, di uccelli e scimmie, a volte diventavano i fantasmi delle voci di un altro universo.
Quando le tenebre cominciarono ad addensarsi tra gli alberi, le sue gambe non erano quasi più in grado di sopportare il minimo peso. Respirava a brevi sbuffi rauchi. Si guardò attorno, in cerca di un rifugio. Colleen si mosse fra le sue braccia, mugolò. Carewe la mise a terra, e per poco non crollò, poi restò a guardarla mentre tornava in sé. La ragazza emise un altro gemito, rabbrividì, agitò le braccia. I suoi occhi, parzialmente aperti, erano falci bianche. I brividi si fecero più violenti.
— Colleen — disse lui, preoccupato, — mi senti?
— Ho… Ho freddo. — Sembrava la voce di una bambina.
— Non preoccuparti. Adesso ti… — Carewe si tolse la tunica e la usò per coprirla; poi si guardò intorno: era sempre più buio nella foresta. L’aria si stava raffreddando in fretta. I soli materiali disponibili erano erba e foglie. Raccolse bracciate d’erba, le mischiò alle foglie più grosse e le sistemò sulle gambe della ragazza, sopra la tunica. Quando ebbe finito, l’oscurità era completa. Adesso era lui a rabbrividire. S’infilò sotto la tunica, cercando di non buttare all’aria il manto vegetale, e prese Colleen tra le braccia. Lei gli si avvinghiò con un movimento dolce, naturale; distese una gamba sopra quella di Carewe. Lui sentì che il suo corpo riacquistava calore. Restò perfettamente immobile. Chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi. Trascorsero minuti, forse ore, mentre Carewe solcava gli oceani del sonno. Negli intervalli di veglia, le stelle non erano più sopra di lui, erano davanti a lui; immobile all’estremità di un pianeta in movimento, correva fra mille pericoli in una galassia sovraffollata. Alla fine, si accorse che Colleen era sveglia.