La pallottola decelerò dolcemente, attraverso una serie di sfinteri e uscì al terminal di Idaho Falls. Una breve sosta mentre il robosmistatore adagiava il veicolo sull’intelaiatura di supporto, poi Gwynne si rimise al volante. Ripartirono verso sud. Il traffico era scarso. Raggiunsero in fretta la periferia dell’antica città, dove fabbriche enormi incombevano su strade desolate. I lampioni proiettavano una luce livida che spazzava muri squallidi e si perdeva in cielo, nascondendo le stelle. Carewe si sentì invadere da un’eccitazione quasi piacevole. Il sapore del pericolo era ancora troppo nuovo ed estraneo perché lui potesse apprezzarlo a fondo, ma per lo meno avrebbe scacciato la sensazione di noia che l’aveva infastidito tutto il giorno. E forse, entro pochi minuti, avrebbe rivisto Athene. Respirò, avvertì improvvisamente l’odore acido del sudore e si voltò a guardare Gwynne.
La fronte dell’investigatore era inondata di sudore. La pallottola si fermò in un vicoletto chiuso. Carewe associava l’idea del sudore a quella della tensione nervosa: ne fu sorpreso e preoccupato.
— Come ti senti, Theodore? — chiese, fingendo indifferenza.
— “Comme ci, comme ça”, più che altro “comme ça.” Nel mio mestiere, questa è roba di tutti i giorni. — Si toccò la fronte umida. — Devo proprio far aggiustare l’impianto di riscaldamento. Sei pronto?
Carewe annuì. — È questo il posto?
— Ci siamo vicini. Da qui in poi, meglio procedere a piedi.
Gwynne aprì il cassettino del cruscotto e ne tolse una piccola torcia elettrica. A Carewe sembrò che l’odore di sudore diventasse sempre più forte. Spalancò la portiera della pallottola e scese, riempiendosi i polmoni dell’aria fresca della sera.
— Credo che la Cuscinetti Antiattrito sia da quella parte.
Gwynne puntò un dito nel vicolo, indicando la zona in cui l’illuminazione moriva fra le tenebre.
Carewe non scorgeva nessuna insegna. Ai suoi occhi, gli edifici erano tutti uguali. — Conosci il posto?
— Ho consultato una mappa prima di partire. — Gwynne attraversò la strada e s’incamminò con cautela verso il rettangolo scuro di una porta. Carewe, che lo seguiva da vicino, si sentiva strano e molto cosciente di sé. D’improvviso, nacque in lui la convinzione assoluta che non ci fosse nessuno nella fabbrica avvolta nel silenzio. Pensò di essere stato trascinato a prendere parte a un gioco ridicolo. Stava per esprimere i suoi dubbi,quando una forma grigia, urlante, balzò dalla porta, scagliandosi direttamente su di loro. Gwynne si spostò di lato, puntò la torcia come per difendersi, poi imprecò quando capì che avevano solo disturbato un gatto. Carewe restò a fissare l’animale in fuga. La parte del suo cervello che pensava notte e giorno, gelosamente, alla sua salvezza, gli stava dicendo che in quella faccenda c’era qualcosa di sbagliato.
— Mai visto uno di questi aggeggi? — Gwynne tirò fuori un piccolo cilindro che all’estremità terminava in una chiave. Alla luce fioca del vicolo, Carewe vide che le dentellature della chiave si muovevano continuamente, come i piedini irrequieti di un bruco. Scosse distrattamente la testa, mentre il suo cervello cercava di scoprire i motivi della sensazione di disagio. Gwynne infilò quella specie di chiave nella serratura di una porticina che faceva parte di un grande cancello. La porta si aprì subito. Ne uscì una zaffata d’aria calda, viziata. Gwynne fece segno a Carewe di entrare in quel labirinto di tenebre.
Carewe esitò. — Non mi sembra un posto molto adatto per rinchiudere qualcuno che si vuole studiare. Le tue informazioni sono buone, Theo?
— Ottime. Ricordati che entriamo dal retro, attraverso i magazzini. Probabilmente gli uffici sull’altro lato saranno più abitabili.
— Ma mi sembra un posto senza vita.
— Paura del buio, Willy? — Gwynne accese la torcia con cautela, la infilò oltre la porta ed entrò. Carewe lo seguì, studiandolo alla luce riflessa dalle fiancate metalliche di quelli che dovevano essere recipienti di immagazzinaggio. Appena arrivato lì, Gwynne era diventato nervoso di colpo, così nervoso che per un attimo il gatto lo aveva terrorizzato. Carewe si fermò a metà di un passo. In quel momento di panico, Gwynne per difendersi aveva puntato automaticamente la torcia sul gatto, quasi si trattasse di un’arma. E quando l’aveva accesa, era stato molto cauto, aveva usato l’attenzione che in genere si riserva a un’arma. Adesso procedeva a piccoli passi, di scatto: come uno che avesse in mano una pistola, non una semplice torcia elettrica.
Carewe s’immobilizzò, lasciò che il detective si allontanasse un po’ da lui. Idee paranoiche? Ormai era fuori dubbio che in Africa avevano tentato di ammazzarlo, ma se anche Gwynne faceva parte del gioco, l’unica conclusione possibile era che…
— Dove sei, Willy? — Gwynne si girò e puntò il fascio di luce nel punto in cui Carewe si trovava un attimo prima.
— Sono qui — rispose Carewe, abbagliato. La luce abbandonò la sua faccia. Abbassò gli occhi e vide che adesso la torcia era puntata sul suo petto. “Sono pazzo” pensò, però si lanciò lo stesso di lato: e, proprio in quel momento, un raggio rosso d’energia scaturì dalla mano di Gwynne.
Sbalordito, accecato, Carewe si mise a correre, le braccia alzate a proteggersi la faccia. Andò a sbattere contro un pilastro e cadde in ginocchio. Le sue mani incontrarono scalini di metallo. Afferrato il corrimano, salì le scale in fretta, attento a non fare rumore. Probabilmente avrebbe raggiunto la passerella che aveva notato prima, guardando i contenitori. Giunto in cima, si sdraiò sul metallo e strizzò freneticamente le palpebre nell’oscurità, mentre le immagini multicolori svanivano dalle sue retine. Quando si fu riabituato al buio, scoprì che l’edificio era immerso nelle tenebre. C’era solo uno strano bagliore rosso sotto di lui. Il bagliore diventò d’un rosso acceso, poi si spense. Carewe capì che si trattava di una macchina colpita dal raggio laser sparato da Gwynne. Il pensiero di cosa gli sarebbe successo se non si fosse buttato di lato in tempo gli inondò la fronte di sudore.
Sotto, apparve una macchia di luce bianca, danzò un attimo fra le pareti di metallo e svanì. Carewe restò immobile, cercando di valutare la situazione. Gwynne era armato, e si trattava di un’arma potentissima; però, per riuscire a colpirlo doveva prima proiettare su di lui il fascio di luce della torcia. Così facendo, gli avrebbe svelato la sua posizione, ma si trattava di uno svantaggio ridicolo. Carewe si sarebbe sentito molto più tranquillo se fosse stato lui ad avere in mano il laser. La luce si accese di nuovo, puntata in un’altra direzione. Carewe si appiattì contro il metallo a scacchi della passerella.
Col trascorrere dei secondi, fu costretto ad ammettere l’inevitabile verità. Se fosse rimasto lì, in attesa che l’altro lo trovasse, sarebbe morto prima del mattino. Respinse diverse volte l’idea di lanciarsi all’attacco di Gwynne, ma l’idea tornava di continuo, con un’insistenza sottile che gli parve quasi più minacciosa del laser. Alla fine alzò la testa dal metallo e scoprì che riusciva vagamente a intravvedere, attraverso il soffitto, il cielo. Si guardò attorno. Dal tetto trasparente emanava un chiarore verdastro, il riflesso della luce dei lampioni, di cui prima non si era accorto perché non si era ancora abituato al buio. Poco per volta distinse le forme vaghe di macchinari e contenitori, uniti dai fantasmi di passerelle, corrimano e tubi a zigzag. Forse nei contenitori c’era qualcosa che poteva servirgli come arma.
Aspettò che sotto si accendesse un’altra volta la luce. Il raggio era più vicino di prima, ma la luminosità riflessa gli servì per guardare nel contenitore che si trovava a pochi centimetri dal suo fianco. Era profondo un paio di metri e pieno fino a metà di quelle che sembravano sfere grosse come un pugno. Quando la torcia di Gwynne si spense, Carewe continuò a vedere le sfere: scintillavano debolmente, come stelle lontane. Per un attimo rimase sconcertato, poi gli tornò in mente qualcosa che gli aveva detto Gwynne: “…Una fabbrichetta di Idaho Falls, la Cuscinetti Antiattrito…”. Cuscinetti. Ma allora si trattava di sfere di metallo!