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Procedette ancora un po’ lungo la strada, fino a trovarsi al di fuori della visuale di un eventuale osservatore sulla collina, e spense il motore della pallottola. Ignorando le occhiate curiose che gli lanciavano i passeggeri dei veicoli in transito, restò seduto tranquillamente, inattesa che il cielo si oscurasse, che svanisse il rosa corallo delle scie di condensazione. Quando s’incamminò su per la collina, l’aria era fresca e tirava una brezza leggera. Giunto più vicino al laboratorio si sentì rassicurato scoprendo che usciva luce dalle finestre ai piani superiori; però si accorse anche che il percorso offriva una copertura scarsissima. Poteva solo sperare che Barenboim non avesse preso la precauzione di disporre sensori di calore o analizzatori agli infrarossi.

La sensazione di essere completamente esposto durò finché non giunse sotto il muro perimetrale, alto più di tre metri. Studiandolo da vicino, scoprì che si trattava di una lega metallica assolutamente liscia, che non offriva il minimo appiglio. Carewe provò a fare un salto, per assicurarsi che non gli fosse possibile raggiungere la cima con le dita, poi s’incamminò lungo la base del muro, girò attorno all’edificio e finalmente raggiunse il cancello. Il muro era liscio, impossibile da scalare per tutta la sua estensione, e il cancello, ovviamente chiuso, appariva altrettanto scoraggiante. Disperato, lasciò vagare lo sguardo sull’erba, illuminata a tratti dalle luci che uscivano dalle finestre. Will Carewe, guastatore dilettante, si era fermato davanti al primo semplicissimo ostacolo, una parete composta di fogli metallici che con ogni probabilità sarebbe riuscito a bucare con un comune apriscatole…

Spinto dall’ispirazione, tolse l’accetta dallo zaino e raggiunse il lato del muro più lontano dalla strada. Poi sferrò un colpo vicino all’angolo, e l’accetta penetrò nel metallo grigio, facendo pochissimo rumore. Aspettò cinque minuti, ma dall’interno non giunsero segni di vita: allora si rimise all’opera, cercando di calibrare i colpi. In pochi minuti aveva ritagliato nel metallo una V capovolta, alta un metro, che riuscì a piegare fino a terra. Dietro c’era una cavità grande abbastanza da contenere i pali di sostegno, e più avanti un altro foglio di metallo. Il foglio interno gli procurò maggiori difficoltà, perché non aveva molto spazio per muoversi; ma procedendo con calma, concedendosi soste frequenti, riuscì a ritagliare un’ altra apertura. Spinse in avanti di qualche centimetro la punta di metallo e guardò. Aveva davanti una spianata di cemento,poco illuminata, chiusa a un lato da una parete del laboratorio. A quanto sembrava, nessuno si era accorto di lui.

S’infilò il coltello alla cintura, e attraversò il muro tenendo in mano l’accetta. Il metallo che aveva ritagliato ritornò a posto da solo, rendendo meno visibili le tracce del suo passaggio. Carewe lo stava sistemando per bene, quando un fascio di luce improvvisa proiettò ombre sul muro. Si voltò di scatto sollevando l’accetta, e intravvide i fanali di un’auto che doveva essere entrata dal cancello. La luce forte dei fari, riflessa e incanalata nel poco spazio tra il laboratorio e il muro esterno, sembrava riempire l’intero universo. Impossibile che l’autista non l’avesse visto, eppure il veicolo proseguì la corsa, sparendo dietro l’angolo più lontano del laboratorio.

Voleva dire che non si erano accorti di lui? Oppure che l’autista possedeva riflessi tanto pronti da fingere di non averlo visto? Carewe infilò l’accetta nella calzamaglia, all’altezza della vita, e corse alla parete più vicina dell’edificio. Si attaccò a una grondaia e si arrampicò, usando doti istintive potenziate dalla paura. Il tetto del laboratorio era piatto e sporgente, Mentre Carewe si tirava su, l’accetta si sfilò dalla calzamaglia e cadde a terra, rimbombando forte sul cemento. Carewe si appiattì sul tetto; poi si accorse che il tetto era a terrazze, che aveva raggiunto quella più bassa, e che le finestre del primo piano del laboratorio si affacciavano lì. Corse ad acquattarsi in un angolo, tenendo la testa appena al di sotto dei davanzali delle finestre. Trascorsero cinque, dieci minuti, prima che lui ammettesse che non avevano ancora scoperto la sua presenza. Sentì tornare l’ottimismo che lo aveva spinto a lanciarsi nell’impresa, e si guardò attorno.

Da dove si trovava, poteva vedere la distesa d’erba oltre il muro di recinzione: una prateria grigia che svaniva verso nord, immersa nella quiete più totale. Da quel lato, nessun pericolo. Della fila di finestre sopra la sua testa, una sola era illuminata. Strisciò fino ad arrivarvi sotto, si alzò in piedi con cautela e diede un’occhiata all’interno. La stanza era piccola. Conteneva soltanto una sedia e una brandirla su cui era sdraiata una donna. Teneva la schiena voltata alla finestra, ma Carewe riconobbe immediatamente la curva languida dell’anca: con gli occhi, col cervello, con ogni molecola del suo corpo.

Athene!

Bussò istintivamente sul vetro, e subito ne fu terrorizzato. Poteva esserci qualcun altro in un angolo della stanza che lui non riusciva a vedere. Athene sollevò leggermente la testa, tornò immobile. Carewe aspettò per qualche terribile secondo, poi bussò di nuovo e restò a osservare la reazione di Athene. Lei sollevò la testa, si sedette, e si voltò verso di lui. Sbarrò gli occhi per la sorpresa, poi corse alla finestra, premendo le dita contro il vetro. Le sue labbra si mossero in silenzio. Carewe esultò: una volta che Athene fosse uscita dalla stanza, potevano attraversare il muro di recinzione e sbucare all’aperto in pochi secondi.

Tirò fuori il coltello e picchiò sul vetro col manico. Il rumore del colpo fu fortissimo, l’impatto gli fece tremare il polso, ma il vetro non si ruppe. Ritentò, e questa volta il coltello per poco non gli sfuggì dalle dita intorpidite. Athene si coprì la bocca con una mano che tremava, e i suoi occhi corsero alla porta della stanza. Sconcertato dalla resistenza del vetro, Carewe mise via il coltello e cercò automaticamente l’accetta; poi si ricordò che era caduta a terra. Fece un cenno vago ad Athene, corse all’orlo del tetto e sporse le gambe in fuori. I suoi piedi non riuscirono a trovare la grondaia, ma non c’era tempo per precauzioni eccessive. Si lanciò nel vuoto, cercando di non perdere l’equilibrio. Atterrò in piedi e si mise subito a cercare l’accetta. La grondaia che aveva scalato si trovava a meno di un metro da lui, ma dell’accetta non c’era traccia. Imprecando, allargò il raggio di ricerca.

— È qui, Willy. — La voce era fredda, divertita, come solo la voce di un immortale di duecento anni poteva essere.

Carewe si alzò in piedi, col fiato mozzo, e si costrinse a guardare.

La figura dignitosa, elegante, di Hy Barenboim sembrava fuori luogo sullo sfondo dello squallido muro di recinzione. I suoi occhi lo scrutavano con estrema attenzione. In mano aveva una torcia elettrica, e da come la stringeva non c’era dubbio che si trattasse di un’arma.

— Ciao — disse Carewe. — Avevo la sensazione che ti avrei incontrato.

— Una sensazione reciproca, ragazzo mio. — Barenboim agitò la torcia. — Entriamo.

— Aspetta un attimo. Saltando giù mi sono fatto male. — Carewe finse una smorfia di dolore, infilò la mano sotto la tunica. Le sue dita si strinsero sul manico del coltello.