— Dovresti avere tanto cervello da non buttarti in queste pagliacciate da eroe — disse Barenboim, annoiato. — Muoviti.
— Perché non mi uccidi qui? O è un posto troppo conosciuto? — Carewe tolse il coltello dalla cintura e lo strinse in mano.
— Il luogo esatto della tua scomparsa è un particolare di scarsa importanza — disse freddamente Barenboim. Accese la torcia e diresse il raggio luminoso sulla faccia di Carewe.
— I miei occhi — gemette Carewe. Scostò la testa di lato, e nello stesso tempo tirò fuori il coltello. Barenboim boccheggiò. Carewe, sfruttando quella che probabilmente era la sua unica possibilità, lanciò il coltello con tutta la forza di cui era capace. Il manico del coltello centrò Barenboim in piena gola. L’immortale andò a sbattere contro il muro, senza perdere la presa sulla torcia. Carewe gli fu addosso prima che l’altro potesse puntare il raggio laser. Afferrò il polso destro di Barenboim, gli fece cadere di mano la torcia, lo colpì al ventre gonfio col pugno: una volta, due, tre volte…
Tornò in sé quando si accorse che doveva tenere in piedi Barenboim per continuare a colpirlo. Lo lasciò crollare sul cemento e si tirò indietro. Improvvisamente capì che aveva fatto del suo meglio per uccidere Barenboim. Vedendo il coltello che lo centrava dalla parte sbagliata, aveva reagito con delusione selvaggia e rabbia. Pensò vagamente che avrebbe dovuto sentirsi più meravigliato, ma le sue capacità d’introspezione sembravano svanite nel lungo cammino fra Nouvelle Anvers, Idaho Falls e Drumheller.
S’inginocchiò accanto a Barenboim, prese la torcialaser, poi gli frugò in tasca e s’impossessò di tutte le chiavi che riuscì a trovare. Corse all’ingresso del laboratorio. Una macchina, quella su cui doveva essere arrivato Barenboim, era parcheggiata sul cemento. Il cancello era aperto. Arrivato alla porta del laboratorio, scoprì che era chiusa, il che lasciava pensare che, a parte Athene, dentro non ci fosse nessun altro. Provò diverse chiavi, finché la porta non si aprì. L’atrio era deserto ma si fermò, esitante: l’idea che Barenboim non avesse con sé nessuno era semplicemente un’ipotesi.
Carewe esaminò la torcia, che era ancora accesa. Tirando all’indietro il cursore la luce si spegneva, e spingendolo avanti si riaccendeva. Puntò la torcia sul pavimento e spinse il cursore un po’ più avanti, Il cursore gli resistette un attimo, poi il pavimento esplose in un’eruzione di lava incandescente. Stringendo la torcia con la massima precauzione, corse all’interno dell’edificio. Ormai non temeva più di incontrare eventuali avversari. C’erano scalinate su entrambi i lati dell’atrio, e gli sembrò più probabile che fosse quella sulla destra a guidarlo da Athene. La divorò di corsa, si lanciò in un corridoio che faceva il giro di tutto l’edificio. In fondo al corridoio, ne trovò un altro, più corto, su cui si aprivano sei porte. Stimata mentalmente la posizione di Athene, si lanciò su una delle porte. Era chiusa, ma lui avvertì la presenza della moglie dall’altra parte.
— Athene — urlò.
— Will! — La voce di lei era fioca. — Oh, Will, sei davvero tu?
— Puoi scommetterci — le gridò. Alla quarta chiave, la porta si aprì, e lei si precipitò tra le sue braccia.
— Calma, calma, calma — sussurrò Carewe, cercando di quietare i tremiti del corpo di Athene con la forza che aveva scoperto in sé.
— Will. — Improvvisamente lei si staccò. — Dobbiamo andarcene da qui. Tu non sai di cosa sono capaci quei due. — Gli occhi di Athene si fermarono sulla sua faccia. Lui si sentì stringere la gola quando vide che la palpebra sinistra di sua moglie era quasi chiusa: un segno di stanchezza che conosceva benissimo.
— Sono perfettamente d’accordo. Andiamo. — Le prese la mano e fuggirono. A Carewe sembrava di essere spinto da un vento fortissimo. Non sentiva quasi i piedi toccare il pavimento. Scesero le scale e uscirono all’aperto. — Prendiamo l’auto di Barenboim — disse lui.
Saltarono a bordo e chiusero le portiere. Carewe ebbe un momento di panico quando scoprì di non riuscire a trovare la chiave d’avviamento, ma alla fine la trovò. La turbina si accese immediatamente. Senza perdere tempo ad accendere i fari, si lanciò ad arco nel cortile e schizzò fuori dal cancello come un missile. Fra le tenebre oltre il cancello si mosse qualcosa di grosso. Carewe ebbe un attimo per capire che si trattava di un’altra macchina, poi ci fu un impatto tremendo. Per un secondo, la loro auto volò in aria, e lui provò l’assurda speranza di riuscire a scavalcare l’altra macchina. Athene urlò. L’universo si capovolse. La voce di sua moglie svanì nell’esplosione dell’auto che precipitava sul fianco della collina.
I palloni pneumatici, espulsi di colpo dal cruscotto dalla forza delle bombole di gas, salvarono la vita a Carewe. Ma quando si trovò intrappolato sotto di loro, quando alzò gli occhi e incontrò la faccia rosea, trionfante, di Manny Pleeth, lui desiderò di essere morto.
16
— Prima che vengano fuori di qui — disse Barenboim, che respirava a fatica e si stava ancora massaggiando lo stomaco, prendi la mia torcia. Il nostro amico qui me l’ha rubata poco fa.
Pleeth annuì, infilò le mani sotto la plastica dei palloni pneumatici. Si acquattò un attimo sul sedile anteriore e trovò la torcia. La linea sottile della sua bocca s’incurvò leggermente in un sorriso di piacere.
— Così va meglio. Non credevo che le cavie potessero essere tanto pericolose. — Barenboim prese la torcia. — Pensi che dalla strada si siano accorti dell’incidente?
Pleeth scosse la testa. — Non credo. Avevamo tutt’e due i fari spenti.
— Buon per noi. — Barenboim fece il giro della sua auto, ispezionandola con aria critica. Carewe sentì che Athene si spostava quando Barenboim le giunse più vicino, come limatura di ferro smossa da una calamita. Cercò di prenderle la mano.
L’albero di trasmissione è partito — disse Barenboim, fermandosi a fianco di Pleeth. — Puoi trovare un cavo e trainare la macchina in cortile?
— Dovrebbero essercene in magazzino.
— Ottimo. Pensaci tu. Intanto io accompagno dentro i nostri ospiti. — Barenboim sfiorò un comando sulla fiancata dell’auto e il gas uscì con un sibilo dai palloni, che si sgonfiarono. Non appena riuscì a muoversi, Carewe scese dal veicolo e aiutò Athene a uscire dalla stessa portiera. Quella dalla sua parte era troppo accartocciata per riuscire ad aprirla. Barenboim, tenendosi alla larga da Carewe, con la torcia pronta a colpire, fece un cenno in direzione del laboratorio. Carewe scrollò le spalle, abbracciò Athene alla vita e s’incamminò. Arrivato nell’atrio, fece per salire la scalinata a destra.
— Di lì no. Scendiamo nel seminterrato. — Barenboim indicò una porta alla base della scala. Carewe l’aprì, si tirò dietro Athene. Discesa una rampa di scalini, si trovarono in un seminterrato adibito a laboratorio per esperimenti alle alte temperature. Il centro del locale era occupato da quella che gli sembrò una fornace elettronica. Tutt’attorno, telemicroscopi, servomani e proiettori di campi di calore.
— Will — mormorò Athene, — non dovevi venire qui. Ci uccideranno.
Carewe tentò, inutilmente, d’inventare una bugia rassicurante. — Sembra proprio di sì — disse, distrutto.
— E io che credevo che tu non fossi il tipo… Non hai paura, Will?
— Di’ pure che sono completamente terrorizzato. — Gli sarebbe piaciuto spiegarle quello che aveva scoperto in quei giorni, e cioè che vivere all’ombra della paura, come lui aveva sempre fatto, era un po’ come essere morti, ma temeva di sembrare ridicolo. E, siccome lei era Athene, forse aveva già capito.