La città di Ross è vecchia, in base agli standard della California, ed è ricca. Ospita tanta gente con tanti soldi da avere tanto potere da mantenerla vecchia. Ci sono ancora strade troppo strette per il traffico moderno; alcune sono soltanto viali col fondo ghiaioso che non sono cambiati di un millimetro da quando i cavalli trainavano carretti, e vengono conservate in quello stato. Ci sono pochissimi parchimetri, non molti cartelli stradali o lampioni, una considerevole assenza di numeri civici; e nel cuore della città si trovano acri di terreno coperto d’alberi, di proprietà dell’Alt and Garden Club, acri che si potrebbero riempire di condominii con notevole profitto economico, ma rimangono intatti. Su alcuni dei viali col fondo in ghiaia sorgono enormi ville che hanno cinquanta, sessanta, settanta, ottanta o più anni. Sono ben conservate e regolarmente ridipinte; sono molto distanziate fra loro e lontane dalla strada, protette da alte siepi o file di alberi, su appezzamenti ricchissimi di verde; sia le case che l’ambiente circostante hanno lo stesso identico aspetto da decenni. Vivrei in una di quelle case, se me la potessi permettere, e fu un piacere scoprire che il party si teneva in una di quelle ville.
Coperta da assicelle in legno splendidamente ingrigite dagli anni, a due piani ma talmente larga da sembrare bassa, sorgeva ad abbondante distanza dalla strada, al termine di un lungo sentiero d’accesso bianco delimitato da alberi. Le auto erano parcheggiate su entrambi i lati del sentiero. Aggiunsi la Packard a una delle file e ci incamminammo verso la casa. Sentivo giungere una musica smorzata dall’interno, ed ero molto eccitato. Chiesi: — A quale causa è consacrato questo party? Per usare un’espressione un po’ forbita.
— È per un asilo nido. Per bambini con madri che lavorano. Un’istituzione interrazziale. Hazel è nel comitato direttivo.
— Benissimo. Il che significa che più ci si sbronza, più si migliorano i rapporti fra le razze. Il che alleggerisce notevolmente la coscienza. Se non finisci ubriaco marcio, sei un maledetto bigotto.
Ci stavamo avvicinando ai gradini in legno di un portico vecchio stile che correva lungo tutta la facciata della casa, e su entrambi i lati. Adesso sentivo benissimo la musica: roba da pianobar. Salimmo i gradini, ci spostammo su un lato del portico, con una gigantesca doppia porta spalancata, e cominciammo a udire il ronzio robusto della conversazione fra parecchie persone. Poi approdammo a un ingresso col pavimento in cotto rosso, e per un attimo restammo a guardare la stanza oltre l’ingresso, e io capii come mai il party si tenesse proprio lì.
Era una stanza immensa, quindici o più metri in ogni direzione orizzontale, con un soffitto alto due piani e lucernari che si potevano aprire grazie ai. meccanismi a ruote e catene disposti sulle pareti. Doveva essere stata pensata come sala da ballo, perché direttamente di fronte all’ingresso c’era una piattaforma fissa, abbastanza grande da ospitare un’intera orchestra, anche se al momento c’era solo un pianoforte: un piano a coda che dominava l’intero salone, suonato da un uomo coi capelli grigi, in smoking grigio con decorazioni in argento. A occhi socchiusi, ondeggiava a tempo con la sua musica lenta, liquida, e aveva sulle labbra un sorriso professionale. Al momento, si stava esibendo in The Way You Look Tonight. Nella stanza c’erano cento o più persone. Chiacchieravano e sorridevano a gruppetti, o si aggiravano a passi lenti tra la folla, o sedevano lungo le pareti su innumerevoli sedie e grandi, vecchi divani imbottiti di velluto, blu sbiadito o marrone. Poi scorgemmo gli Hurst, Hazel e Frank. Si stavano facendo strada verso noi, sorridenti, e noi andammo loro incontro nell’enorme salone.
Venimmo presentati a un gruppo di amici degli Hurst e restammo a fare capannello con loro per qualche minuto. Io scrutai le donne che archiviavano nelle banche della memoria i dettagli completi del vestito di Jan. Una di loro cominciò a parlarci dell’asilo nido, e dopo un po’ a me si appannò lo sguardo. Poi altre due coppie, che conoscevano quasi tutti gli altri, si unirono al nostro circolo, e nel caos dei saluti e delle battute io sfiorai il braccio di Jan. — Andiamo a versare l’obolo per le madri che lavorano.
Avevo visto il bar a un’estremità della stanza, tavolini pieghevoli coperti di tovaglie accostati l’uno all’altro. Dietro, a ridosso della parete, c’era una seconda fila di tavoli, il bar vero e proprio. Quando lo raggiungemmo, tre baristi in giacca rossa stavano servendo sette o otto persone. All’ultimo tavolino, una signora dai capelli grigi, sorridente e molto distinta, sedeva su un seggiolino pieghevole; aveva davanti a sé un mazzo di biglietti e una scatola di metallo nero. Pagai per due biglietti, ognuno dei quali valido, mi informò la signora con voce raffinata. — Per qualunque tipo di drink, dal vino bianco al Martini. — La ringraziai, notai, che anche la mia voce si sforzava di sembrare raffinata, poi mi girai verso Jan per chiederle cosa volesse.
Restai perplesso dalla sua espressione: fissava il bar a bocca socchiusa. I tavoli erano coperti di bottiglie, in enorme quantità, in parte già aperte, in parte ancora chiuse. C’erano whisky di ogni tipo e di molte marche; decine di bottiglie di gin e vodka; c’erano vino e sherry; file di Coca, 7 Up, gazzosa, altre bevande gasate; sul pavimento, sotto il tavolo, erano accatastate casse di liquore e vino. Uno spettacolo imponente, però… Di tanto in tanto, per eccitazione ed esuberanza, Jan, come talora succede ai timidi, si ficca in testa di mettersi a fare il pagliaccio, e di solito sceglie quello che a me sembra il momento sbagliato. Pensai fosse in uno di quegli stati d’animo, e cercai di tirarle una gomitata per farla smettere subito, ma era troppo tardi. Jan fece un sorrisone al barista in attesa, che la fissava a sopracciglia alte, e gli disse: — Wow! Ma guarda tutto quel ben di Dio! È roba buona?
— E dai, Jan — borbottai. — Cosa vuoi?
— Be’, tanto per mettere in moto le cose, prenderò un cocktail Bronx.
Il barista corrugò la fronte. Un tizio a qualche tavolo di distanza ci stava fissando.
Io ripresi a borbottare. — Non credo servano cocktail complicati a un party del genere. Richiedono troppo tempo.
— Okay. Siamo qui per fare i bravi. Allora un gin buck. — Jan fissò il barista, poi scosse la testa, esterrefatta. — Non sai cos’è? Ma dove vivi? È solo gin, ginger ale, e succo di limetta. Mettici molto gin, e lascia pure perdere la limetta. È l’alcol che conta!
— Oh, per amor di Dio — dissi a denti stretti, e mi girai a ricambiare gli sguardi acidi della gente attorno a noi. Il barista diede il drink a Jan, quasi impassibile, anche se mi lasciò intravedere un sogghigno sepolto in fondo agli occhi. Io dissi: — Bourbon e soda — e misi sul tavolo i miei due biglietti. Restai a guardare il barista, che preparò il mio drink abbastanza in fretta. Presi il bicchiere, lieto di potermi voltare. Jan era a metà stanza; stava tornando verso gli Hurst. Poi la vidi fermarsi con un gruppetto di persone, rovesciare la testa all’indietro, e tracannare il liquore come un lupo di mare assetato. A quel punto, si girò e tornò verso me.
— Fallo un’altra volta, ragazzone! — disse, porgendomi il bicchiere vuoto. — È roba forte. Fresca fresca dalla fabbrica!
— Piccola, stai facendo un casino del diavolo, credimi — le dissi. — Lo so che ultimamente siamo usciti poco, ma cerca di cambiare musica, eh? Prima di tornare dagli Hurst e dai loro amici. Aspettami là. Ti porto il tuo drink. — Mi costrinsi a sorriderle, e mi riavvicinai al bar. Porca miseria, era una serata che aspettavo da tanto tempo!
C’era un bar a ogni estremità della stanza, scopersi. Mentre ripartivo verso gli Hurst, vidi Jan e Frank Hurst lasciare il gruppo e dirigersi al lato opposto della stanza; poi vidi il secondo bar. Dopo essermi fatto strada in mezzo alla folla, con varie acrobazie per non rovesciare né il bicchiere di Jan né il mio, lei e Frank stavano tornando. Jan sorseggiava un nuovo drink. Ci raggiunse, rossa in viso, con gli occhi che brillavano. Finì il drink, poi mi passò il bicchiere vuoto, prese quello che le avevo portato io, e si scolò metà cocktail. Un paio di donne la stavano guardando, continuavano a studiare il suo vestito. Jan le fissò con aria insolente finché loro non distolsero lo sguardo. All’improvviso, Jan diede una sventagliata con un fianco e cominciò a schioccare le dita della mano libera. — Questo party sta schiattando — disse. — Diamogli un po’ di movimento! — Si scolò tutto il drink e, senza guardarmi, mi tese il bicchiere. Fui costretto a prenderlo (a quel punto stavo maneggiando tre bicchieri), e Jan lasciò di nuovo il gruppo.