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Ero arrabbiato con Jan come mai in vita mia, credo. Mi sforzai di lasciare stampato sulle labbra un sorriso e restai lì, coi due bicchieri vuoti nelle mani abbassate sui fianchi. Speravo che non si notassero troppo. Ascoltai con estrema attenzione una delle donne, che stava parlando della necessità di maggiore spazio e più attrezzature per l’asilo nido. Mi rifiutai di voltarmi per vedere dove stesse andando Jan; sapevo che non aveva soldi.

La donna finì di parlare, qualcuno le rispose, e io bevvi un sorso o due dal mio bicchiere, spostandomi un poco con la massima cautela per lanciare un’occhiata di soppiatto a Jan. Rimasi completamente esterrefatto: era al bar, sorrideva, e stava accettando un drink da un uomo che per lei era un perfetto sconosciuto, ne ero certo. Lui fece un mezzo inchino e agitò una mano in risposta ai ringraziamenti di Jan. Mia moglie alzò il bicchiere in un brindisi, bevve un terzo del liquore, poi si rituffò nella folla: non per tornare al nostro gruppo, come pensai in un primo momento, ma per dirigersi all’altro lato della stanza. Riuscii a seguire per qualche passo il suo vestito, poi scomparve nella marea umana.

Non sapevo che fare. Proprio non lo sapevo. Non potevo creare una situazione imbarazzante per lei o per me andandola a cercare in mezzo alla folla, anche se avrei voluto. Con uno sforzo, restai dov’ero e finii il mio drink. Poi sorrisi a Hazel Hurst, al mio fianco, gesticolai col bicchiere vuoto e chiesi: — Posso portarti un rifornimento, Hazel? — Sapevo che beveva pochissimo, e quando mi rispose di no sorrisi un’altra volta, girai sui tacchi e mi avviai verso il bar, a passo lento e indifferente. Continuai a guardarmi attorno e a cercare di proiettare l’immagine dell’uomo che si sta divertendo. Pensavo che se me la fossi presa calma, forse sarei riuscito ad acchiappare Jan al bar e a trascinarla fuori di lì, in un modo o nell’altro.

A metà strada dal bar, sentii il pianoforte interrompere bruscamente un medley di motivi da musical. Udii un leggero aumento nel livello del ronzio delle conversazioni, vidi teste girarsi verso la piattaforma. Mi voltai anch’io, senza sapere cosa avrei visto; ma quando vidi, mi parve di averlo saputo da una vita. Sulla piattaforma, il pianista sorrideva cortese, a testa china sui tasti, e ascoltava una donna che gli stava sussurrando qualcosa all’orecchio. Fra lei e me c’era la massa del pianoforte, e la testa della donna era parzialmente nascosta da quella del pianista. Non la vedevo, però sapevo. Poi, con un sorriso gigante, Jan rialzò la testa sulla piattaforma. Il suo vestito era l’oggetto più vivace dell’intera sala. Quando il pianista attaccò a suonare quella che doveva essere la sua richiesta, lei balzò a sedere sul pianoforte, sventolando le gambe, e si mise a cantare col pianista Bye Bye Blackbird. Cantava le parole quando le conosceva, e sostituiva quelle che non ricordava con da-da, DA-da.

Se la cavò abbastanza bene: una voce esile, ma intonata. E mentre io camminavo tra la folla verso lei, la canzone terminò (il pianista diede un taglio netto), e le persone raccolte attorno alla piattaforma applaudirono; ma il movimento delle mani era fiacco, pigro: un applauso ironico. Qualcuno urlò beffardamente: — Brava! — Jan scivolò giù dal pianoforte, e la sua testa si chinò di nuovo su quella del pianista. Lui annuì, con un sorriso rigido sulle labbra, e cominciò a suonare Sweet Sue a ritmo molto molto veloce.

Incredibilmente, Jan si mise a ballare, a ginocchia unite, con piedi e gomiti che piroettavano per aria. Il suo vestito era un arcobaleno in volo. Ed era brava, splendida. I suoi piedi guizzavano a ritmo impeccabile, le dita schioccavano, il viso era alzato verso il soffitto, a occhi socchiusi nell’estasi della danza. Erano spalle e braccia a muoversi di più, e le gambe, ma soprattutto dalle ginocchia in giù. A parte l’ondeggiare dei fianchi, il corpo si muoveva pochissimo, e non si spostava. Si sentivano le sue scarpe strusciare sul parquet, ed era una danza selvaggia, eccitante, primitiva, intrisa di un’innocente sessualità; e dopo che mi fui fatto strada fino all’orlo della piattaforma, restai lì a guardare Jan, arrabbiato, furibondo, e al tempo stesso preda di una ridicola sensazione d’orgoglio per quella stupefacente esibizione.

Il pianista concluse con uno scampanellio di note e un accordo, e quasi tutta la sala applaudì, questa volta in maniera sincera. Una dozzina di voci o più urlarono: — Ancora! — e dicevano sul serio. Jan si stava producendo in una serie di inchini quasi da professionista: prima a sinistra, poi a destra, ruotando lentamente su se stessa per abbracciare l’intero pubblico. Nel girarsi, mi vide intento a fissarla, e si portò sull’orlo della piattaforma, direttamente di fronte a me. — Prendimi, Nick! — disse. E si buttò giù dalla piattaforma, all’indietro, fra le mie braccia. I miei tre bicchieri vuoti si frantumarono sul pavimento.

Non mi permisi di pensare al significato di tutto quello. Non per il momento. Con l’eterno sorriso sulle labbra, appoggiai a terra Jan, le passai un braccio attorno alla vita, e le afferrai il polso sinistro con la sinistra. Con l’altra mano le presi il polso destro, e tenendo le mani basse, nascoste agli occhi degli altri, la guidai (la spinsi a forza, in effetti) tra la gente attorno alla piattaforma che ancora sorrideva e applaudiva. La folla si aprì a malincuore per lasciarci passare. Su quel lato della stanza avevo visto una porta a vetri che dava su uno dei portici laterali, e su una breve scala che portava a un prato. Ci dirigemmo in fretta verso la porta. L’avevamo quasi raggiunta, passando davanti al bar, quando Jan si fermò così di scatto che il suo polso sinistro si liberò. Mi girai a guardarla, continuando a tenere stretto l’altro suo braccio, e lei mi tese il palmo della mano libera. — Dammi venti dollari.

— Fuori — mormorai, in tono dolce, per calmarla. — Andiamo fuori e ti…

— No. — Lei agitò la mano nell’aria, spazientita. — Qui. E subito. O non farò un altro passo.

Osservato da tutti, tirai fuori il portafoglio, trovai un biglietto da venti, e lo diedi a Jan. A quel punto, dovetti lasciarla andare. Lei prese i soldi, girò attorno alla signora dai capelli grigi che la fissava a occhi strabuzzati, e raggiunse il bar. Prese una bottiglia ancora chiusa di gin Gordon, si girò, sbatté i venti dollari davanti alla donna, e, seguita da me, si avviò all’uscita. Sorrideva, soffiava baci d’addio alla sala sorridente, mormorante, incredula.

Sulla Packard, ero talmente confuso che ebbi qualche problema a inserire la chiave nell’avviamento; e quando feci marcia indietro sul sentiero d’accesso, per poco non tamponai l’automobile parcheggiata dietro di noi. Svoltai sulla strada bianca e per mezzo isolato guidai con la faccia incollata al parabrezza, cercando di vedere qualcosa al chiaro di luna, prima di ricordarmi di accendere i fari. Volevo trovare un posticino isolato dove fermarci a parlare; al momento, non riuscivo ad aprire bocca.

Ma la capote era abbassata, l’aria della sera mi rinfrescava le guance, e dopo un po’ avevo ritrovato il controllo della voce. Così dissi: — Jan. — Ma lei mi ignorò. Era alle prese col cerchio di plastica attorno al coperchio della bottiglia che teneva in grembo. Impaziente, cominciò a svitare il tappo senza togliere la plastica. I miei nervi erano molto tesi, e mi venne da strillare: — Per la miseria! — Avevamo raggiunto la campagna più o meno aperta. Alle nostre spalle non c’erano più edifici. Accostai sul ciglio della strada e fermai, con una frenata brusca. — Jan, rispondimi, se no, il cielo mi aiuti, io ti…