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Lei mi sorrise dolcemente. — Chiamami col mio nome, e ti risponderò.

Restai a fissarla, ma anche questa volta sapevo; e mi sembrava di sapere da molto tempo. Sapevo chi fosse stato, quel pomeriggio, a comperare il vestito sgargiante con l’orlo della gonna venti centimetri sopra le ginocchia, chi conoscesse quasi tutte le parole di Bye Bye, Blackbird, e chi fosse in grado di ballare il charleston come se lo avesse appena inventato. — Marion?

— Parlerò con l’intero mondo sbronzo. Apri questa maledetta bottiglia, Nickie. Hai bisogno di un goccetto!

Aveva ragione. Afferrai la bottiglia e cominciai a togliere il cerchietto di plastica. L’autista di una Volkswagen di passaggio si girò a guardarci. E tre drink e sei chilometri dopo, sulla serpeggiante strada bianca (avevamo superato i limiti della città e l’ultima delle case, eravamo in piena campagna), sentii il bisogno di un altro sorso. Bevvi, reggendo il volante con una sola mano. Il gin scendeva dalla bottiglia direttamente nella mia gola.

— Passa qui. — Obbedii. Lei tracannò, poi sorrise. — Questa non è roba da due soldi fatta in casa, baby. Questo è vero gin di prima della guerra!

— Dobbiamo parlare. — Un sentierino davanti a noi portava al recinto di un campo, e io rallentai per imboccarlo.

— Sicuro, ma non adesso. Mi sto divertendo. Guida! — Lei appoggiò il suo piede sul mio e pigiò l’acceleratore a tavoletta. L’automobile fece un balzo in avanti, e io sterzai di colpo per non finire diritto nel fossato sotto il sentiero. — Dai gas! Forza con quel motore! — strillò lei. Si girò, si arrampicò sul sedile, andò a sistemarsi sulla capote abbassata. — Iuuuupiiiii! — urlò, e un frammento della mia mente riuscì a notare che stavo sorridendo, e che il mio piede continuava a tenere schiacciato l’acceleratore.

Era pericoloso. Non c’erano argini nelle curve, e la metà posteriore dell’automobile sbandava a ogni svolta. Ma senza rallentare, mi chinai in avanti e con una mano allentai i due grossi dadi ad alette del parabrezza, e abbassai dolcemente il parabrezza sul cofano.

L’aria della sera, fresca e fragrante degli aromi della campagna, mi arruffò i capelli, mi premette gli occhiali contro la fronte e gli zigomi, mi costrinse a socchiudere gli occhi. Imboccammo un’altra curva. Questa volta le ruote posteriori viaggiarono nel vuoto per un metro buono prima di ritrovare il contatto col terreno. Il cuore mi salì in gola per l’eccitazione, e strillai: — Iuuuupiiiiii! — Seduta sulla capote abbassata, Marion sventolava in aria la bottiglia di gin. In quel momento, nei suoi occhi socchiusi c’era un’espressione di piacere totale. Il sorriso sulle sue labbra esprimeva una pura, incosciente, gioia animale.

— Al diavolo gli sbirri! — strillò lei, e bevve una lunga sorsata di gin. La sua gola era candida nel chiarore lunare. Poi mi passò la bottiglia. Io la afferrai e mandai giù quello che restava del liquore senza sollevare il piede dall’acceleratore. Un albero stava correndo verso noi, e io mi sollevai a metà dal sedile, e con tutta la forza del mio braccio scaraventai la bottiglia contro l’albero. Lo centrò in pieno. Si frantumò in un modo splendido. Schegge di vetro volarono via come punte di ghiaccio, e tutti e due lanciammo un ululato di gioia. Mi sentivo libero e selvaggio, come non ero più stato dall’infanzia, più di quanto ricordassi possibile.

Ma dopo qualche centinaio di metri rallentai, pigiai sui freni, poi imboccai una stradina che portava a una fattoria le cui luci brillavano lontane. C’erano cavalli in un campo, e alberi coi rami che si protendevano sulla strada. Fermai sotto gli alberi, misi il freno a mano, spensi motore e fari. Dovevamo parlare.

Marion stava scivolando sul sedile al mio fianco, e la gonna le risaliva su per le cosce. Si girò verso me, sollevò le braccia. — Oh, Nickie, Nickie — disse. — È così bello essere tornata.

— Ferma. — Dovetti alzare una mano. — Senti, tu sei convinta che io sia mio padre?

— Ma no, naturalmente. Lo credevo ieri sera. Quando abbiamo visto il mio film. Ero ancora confusa. Lo sai? Si perde il senso del tempo. Perché non ha più alcuna importanza.

— Questi non sono gli anni Venti.

— Com’è vero! Che razza di party. Tutti che se ne stanno lì a parlare di asili infantili! Che cavolo di party era? Nessuno che si sbronzasse. Cos’era quel grosso ponte rosso che abbiamo attraversato?

— Il Golden Gate Bridge.

— Che fine hanno fatto i traghetti?

— Eliminati.

— Buonanotte! Che fesseria! Erano divertenti.

— Be’, abbiamo tenuto i tram. Qualcuno.

— Fantastico. Oh, senti! Dempsey ha battuto Tunney?

— No. Ha vinto Tunney. Due volte. C’è stata la rivincita.

— Accidenti. Dempsey è così attraente, molto più carino del principe di Galles. In che anno siamo?

— Millenovecentottantacinque.

— Cosa? Cavoli, ma sono passati… cinquantasette anni.

— Cinquantanove.

— Odio l’aritmetica. Il che significa che io ho…

— Ottant’anni.

Lei restò a bocca aperta, poi sorrise. — No, non è vero. E tu lo sai.

Qualcosa si mosse nei recessi della mia mente. Era lì da un po’ di tempo, e adesso si fece avanti, imponendosi alla mia attenzione. — Marion… Ieri sera. Dopo il film. Eri… tu?

Lei si appoggiò alla portiera e mi guardò. Le sue spalle tremavano in una risata muta. Poi annuì.

Mi scostai. Mi girai a fissare gli alberi al nostro fianco. Sentii Marion scivolare sul sedile verso me, poi mi tirò una gomitata al fianco. — Ehi — disse sottovoce — cosa c’è di tanto interessante lì? Ehi, Nickie, guardami! — Io scossi la testa. — Perché no?

— No, all’inferno! — Mi voltai a guardarla, poi scossi la testa, incredulo. — Signore, me ne sto qui a guardare la faccia e il corpo di mia moglie, e parlo con te del fatto che l’ho tradita! È una specie di incesto! Però peggio! — Appoggiai i gomiti sul bordo del grande volante in legno e mi presi la faccia tra le mani. — Gesù! Devo essere l’unico uomo degli ultimi cinquantamila anni che abbia scoperto un nuovo tipo di peccato!

— E non è stato bello? — Io non mi mossi, non risposi. — Andiamo — disse lei, morbida, suadente — dire che è stato bello non ti farà del male. Perché lo è stato. E tu lo sai.

— Col cavolo.

— Oh, sì, è stato bello. Molto meglio che con comesichiama, Janice Lavapiatti, una che non ci sa proprio fare. — Marion restò zitta per un attimo. — Guardami, maledizione! Io non somiglio per niente a tua moglie!

Mi voltai, socchiusi gli occhi. Il viso era quello di Jan, e i capelli, le braccia, le mani e il corpo erano i suoi, però… c’erano una sfrontatezza negli occhi, una pienezza nelle labbra sorridenti, una tensione e un’eccitazione in ogni linea di quel corpo familiare, che io non avevo mai visto. C’era una certa somiglianza con Jan, ma, incredibilmente, nulla di più. Quella era un’altra donna: Marion Marsh, e nessun’altra, che adesso si chinava verso me, sorridendo, offrendosi. — Baciami, Nickie.

Io scossi la testa e mi girai di scatto.

— Perché?

— Per un motivo assolutamente ridicolo. Non voglio tradire mia moglie! — Fissavo, senza quasi vederli, gli alberi a lato dell’automobile, e tentavo di scacciare una tentazione (Gesù, quanto avrei voluto non avere bevuto quel gin) così intensa da mozzarmi il respiro. Desideravo con un’intensità incredibile. Chiusi gli occhi e cominciai a inspirare lentamente, ritmicamente. Raffreddai i miei pensieri, consapevole che al mio fianco c’era una ragazza che si offriva, che aspettava… E vinsi. Quando alla fine riaprii gli occhi, mi sentivo fisicamente debole.