Mi chinai su lei e la baciai teneramente. Poi mi sporsi sul vassoio, presi fra le mani le sue spalle, e la baciai di nuovo, molto più a lungo, con forza. Volevo chiederle perdono per ciò che avevo fatto, e mi pareva che quello fosse il modo giusto. — Ehi! — Jan finse di restare senza fiato. — Che storia è questa? E col doposbornia e tutto quanto.
Sorrisi. — Specialmente con un doposbornia. A me succede così. Non so perché. Mi è sempre successo.
— Sempre? Il che significa…
— Lasciamo perdere la storia antica. Quello che conta è l’oggi. — Mi sporsi ancora sul vassoio, protendendomi verso lei.
— Allora forse è il caso di liberarci di questo, santo cielo. — Jan prese il vassoio e lo mise sul pavimento. Poi si girò verso me, e ci baciammo, a lungo ma dolcemente. Poi appoggiammo tutti e due la testa su un unico cuscino. Sorridemmo, felici l’uno dell’altra, felici di sapere che stavamo per fare l’amore: una sensazione tranquilla, familiare, quasi languida, accentuata dagli ultimi residui del doposbornia.
Ci baciammo di nuovo, ci avvicinammo, ci mettemmo comodi. Jan cercò e trovò il fazzoletto che tiene sotto il cuscino e si soffiò il naso. Io tirai la coperta fin sopra le spalle di tutti e due e sprimacciai il cuscino. Alla base del mio collo era iniziata una pulsazione, un’emicrania indecisa se tornare o no. Ma non mi importava. Dovevo scaricare il fardello dei sensi di colpa nei confronti di Jan, e la cosa bella era che mi piaceva farlo. Adesso la baciavo con lenta passione, e lei rispondeva. I miei sensi cominciavano a risvegliarsi, e io sorrisi di sollievo perché mi stava piacendo quanto la sera prima. Anzi, anche di più. Le mani di Jan si intrecciarono sotto la mia nuca, e lei mi attirò a sé, baciandomi una volta e un’altra e un’altra, a raffica, con forza. Io strinsi le braccia attorno al suo corpo sino a farla boccheggiare. — Jan?
— Sì?…
Provai la travolgente tentazione di convincermi che mi ero ingannato. Avrei voluto crederlo. Gesù, quanto avrei voluto. Ma sapevo che quello era il momento della verità, il test che dovevo assolutamente superare. La spinsi via con tanta violenza che le sue mani intrecciate si divisero in maniera brutale, e lei urlò. Ma io continuai a spingere freneticamente, usando entrambe le mani. — No, porca miseria, no! — Stavo urlando. — Sei tu, e lo so!
— Oh, che differenza fa? — disse Marion, rabbiosa.
— Tutta la differenza di questo mondo! — Avevo steso le gambe per tenerla lontana; la pianta di un piede era premuta contro il suo stomaco.
— Già, è proprio così, no? Tutta la differenza di questo mondo. — Il viso di Jan mi sorrideva, ma gli occhi, sensuali e maliziosi, erano quelli di Marion.
Sono un patito di film muti, definizione che non mi piace molto, ma non ne ho una migliore. E ho visto molte vecchie cose di Keaton, Laurel e Hardy, Chaplin, Mack Sennett. Quindi so che i migliori pezzi forti delle vecchie comiche sono tutt’altro che abborracciati. Poste le premesse iniziali, alcune di queste bellissime vecchie sequenze (come Keaton e il mortaio sul carrello ferroviario, in Il generale) hanno una logica meravigliosa; ogni evento nasce inevitabilmente dal precedente. In un senso molto bizzarro, sono realistiche; sono scene che potrebbero succedere. Quindi, non mi meravigliò scoprire che ciò che accadde lì, nella mia camera da letto, si trasformasse in qualcosa che i poliziotti delle comiche avrebbero capito.
Lei cercò di spostarsi verso me, ma il mio piede era ancora premuto contro il suo stomaco, la teneva ferma; e lei disse: — Nickie, tu ne hai voglia, e lo sai!
Lo sapevo. — No, non ne ho nessuna voglia. Adesso piantala.
All’improvviso, lei fece correre una mano sulla mia gamba, sotto i calzoni del pigiama, grattando con le dita, e la mia gamba si ritrasse per un riflesso automatico. All’istante, lei strisciò verso me, e io abbassai un piede sul pavimento e mi alzai su una gamba sola, traballando. Lei si scaraventò verso me, ridendo come un’ossessa, e una mano scattò ad afferrare un’estremità della cordicella del mio pigiama. La mano diede uno strattone, il nodo si sciolse, e i miei calzoni precipitarono sul pavimento in una pozzanghera di stoffa bianca che mi arrivava alle caviglie. Io mi chinai subito a raccoglierli, ma lei era ormai all’orlo del letto, tentava di abbrancarmi, e io schizzai all’indietro. Un piede uscì dai calzoni, che mi seguirono nella corsa penzolando dall’altra caviglia. Marion stava rotolando giù dal letto in un turbinio di camicia da notte rosa e gambe scaldanti. Io mi sentivo nudo, scoperto. Abbassando con una mano l’orlo della giacca, corsi nella stanza, e liberai l’altro piede dai calzoni. Sul fondo della stanza c’è un grande armadio che occupa tutta la parete. L’anta più vicina a me era aperta, e io entrai. È un’anta scorrevole; la richiusi subito.
Venne riaperta all’istante. Davanti a me c’era Marion, che sorrideva eccitata. Fece un passo avanti, e io schizzai via, scostando freneticamente gli abiti appesi. — Marion, per amor del cielo! È assurdo!
— Però divertente! Divertiamoci nell’armadio, Nick! Urrà!
Adesso ero nella zona di Jan del lungo armadio. Avanzavo alla cieca, scaraventando indietro sull’asticella chili di vestiti. Marion, che mi inseguiva, se li gettava alle spalle quasi con la mia stessa velocità. Era come se stessimo nuotando in un mare di abiti. — Nickie — strillò lei felice, con voce smorzata — non è eccitante?
In un modo piuttosto inquietante, lo era. Se solo lei mi avesse toccato con un dito, sapevo già cosa sarebbe accaduto, lì e subito. Usando entrambe le braccia in uno stile di nuoto non troppo ortodosso, mentre correvo verso l’estremità opposta dell’armadio, cominciai a scaraventare indietro quantità ancora maggiori di vestiti.
Mi fermai di colpo e restai immobile: davanti a me era apparsa una luce improvvisa. L’anta sul fondo dell’armadio si era aperta nel silenzio più totale. Mi misi in ascolto, ma non sentii niente. Stavo cercando di respirare nel modo più calmo possibile. Il silenzio continuò. Capii che lei era di fronte all’armadio, chissà dove, giuliva, ad aspettare che io decidessi per una direzione o per l’altra. Mi trovavo fra le due ante aperte, in una minuscola terra di nessuno sgombra d’abiti, a mezza strada fra la mia parte dell’armadio, che avevo di fronte, e la parte di Jan alle mie spalle. Mi protesi in silenzio. Le mie dita sfiorarono del nylon, e riconobbi la mia giacca da sci. Con molta lentezza, tastai sotto la giacca, toccai un materiale ancora più morbido, e lo strinsi nella mano.
Poi la sentii. Ci fu un tintinnio improvviso di appendiabiti: stava avanzando verso me dalla parte di Jan. Probabilmente sperava di catturarmi mentre procedevo in quella direzione. Sotto le mie camicie, vestiti e calzoni appesi c’era uno spazio vuoto alto un metro. Mi accoccolai sui talloni, poi corsi avanti a testa bassa, e nel silenzio più totale rientrai in camera da letto piegato in due a mo’ di oca. In una mano avevo i miei calzoni da sci azzurro cielo. Mi alzai, mi misi in equilibrio su un piede, e infilai sull’altra gamba i calzoni. Ma ero stato troppo precipitoso: persi l’equilibrio, e fui costretto a mettermi a saltellare. I tonfi del mio piede sul pavimento risuonarono forti come martellate.
La sentii cambiare immediatamente direzione nell’armadio, e poi lei apparve dall’anta sul fondo, dalla parte di Jan. Restò a guardarmi. Sollevò lentamente entrambe le mani all’altezza delle spalle, curvò le dita ad artiglio, e distorse il viso in una parodia cretina di lussuria. Le sue spalle chine in avanti tremavano in una risata muta. A passi lenti, si avviò verso me.
Quando ti inseguono, ti lasci prendere da una specie di panico illogico. Senza riflettere, mi buttai sul pavimento della stanza a quattro zampe, mi diedi una spinta robusta premendo i piedi contro l’armadio, e scivolando sul pavimento mi infilai sotto il letto.