Rotolando freneticamente sullo stomaco, mi girai verso la stanza; poi rimasi lì, sotto il letto, a guardare i suoi piedi nudi, l’orlo della camicia da notte. Marion si aggirava nella camera, boccheggiando per le continue crisi di riso. Avevo una gamba infilata nei calzoni da sci, e cercai di infilare anche l’altra nello spazio di pochi centimetri sotto il letto, ma non riuscivo a trovare l’apertura, non potevo muovermi o vedere alle mie spalle; sudavo come un maiale. Poi il mio piede trovò l’apertura dei calzoni, e, furibondo, infilai l’altra gamba con tutta la forza che avevo.
Lei era china a scrutarmi, coi capelli che quasi toccavano il pavimento. I suoi occhi capovolti, e molto eccitati, erano puntati nei miei. Per un momento, entrambi immobili, ci fissammo. Poi, sotto il suo viso rovesciato, apparve una mano. L’indice piegato a uncino mi invitò lascivamente a uscire, e io mi misi a bestemmiare.
Marion si rialzò. Il letto cominciò a muoversi sulle rotelle, per mettermi a nudo. Io reagii prima di riflettere. Come un soldato che strisci sotto il fuoco nemico, avanzai su gomiti e ginocchia per tenere il passo col letto. Poi, finalmente, il mio cervello riprese a funzionare. Avevo sbattuto la testa contro le molle del letto; mi ero fatto male ai gomiti cadendo sul pavimento; ero accaldato, impolverato, rabbioso; in quel momento, ero in grado di resistere a qualunque donna. Smisi di muovermi e lasciai che il letto si spostasse sino a espormi.
Con una certa difficoltà, mi tirai su aggrappandomi alla testata del letto, che adesso era al centro della stanza, e mi eressi in tutta la mia statura. Somigliavo un po’ a un tritone, immagino, con le gambe incollate l’una all’altra; perché, scopersi, le avevo infilate tutte e due nella stessa gamba dei calzoni da sci. Marion non riusciva a parlare. A braccio teso, puntava l’indice sulle mie gambe fasciate dalla stoffa elastica che sembravano un’unica gamba, enorme e stranamente contorta, con due piedi che spuntavano da un solo risvolto teso fino all’incredibile. Lei era scossa dalle risate, aveva gli occhi sgranati di deliziato stupore. Che io sia dannato se mi metto a saltare, dissi, e restai lì, attaccato alla testata del letto; poi fui costretto a sorridere a mia volta. Marion crollò sul letto, scossa da risate frenetiche, ululando, e io la guardai, e per un po’ continuai a sorridere, poi scoppiai a ridere con lei.
Marion si calmò. Sdraiata sul letto, con le lacrime che le scendevano sulle guance, boccheggiava in cerca d’aria, scuoteva la testa per l’incredulità. Io la guardai, e lottai con me stesso. Lottai con foga maggiore. Lottai furiosamente. E persi. Non potevo camminare, così avanzai balzelloni, piroettai nell’aria, in una nube di stoffa bianca e azzurro cielo. Atterrai al suo fianco, e la abbrancai al primo tentativo.
Quando, più tardi, mi rizzai a sedere, lo feci molto lentamente. Afferrai la coperta, la tirai su, me la avvolsi attorno alle spalle, con un angolo che mi copriva la testa, e restai seduto sul letto, le braccia strette attorno alle ginocchia. — Oh, porca miseria — dissi. — Porcaccia, porcaccia, porcaccia miseria.
— A volte mi fai uscire dai gangheri. — Marion sprimacciò un cuscino, poi si coricò, si coprì col lenzuolo. — Però, che pigiama party! E tu lo sai bene! — Sorrise. — Com’è bello essere tornata! Amare ancora!
— Allora vai a possedere qualcun altro, per la miseria!
— Non posso entrare in una persona qualunque! Questa è casa mia, il mio posto, quindi devo possedere Jean, Jane, June, come diavolo si chiama. Non penserai che mi piaccia? — Fece scendere su un occhio una ciocca di capelli. — Guarda questi capelli stitici. Che colore schifoso. — Lasciò cadere la ciocca. — E sopracciglia folte! Braccia scheletriche! — Una gamba spuntò da sotto il lenzuolo, si alzò in aria, molto aggraziata. — Le gambe non sono male, devo dire. Anche se le mie erano meglio. — Con un sorriso ironico, restò in quella posa finché io non distolsi lo sguardo; poi abbassò la gamba nella mia direzione, con le dita dei piedi tese in avanti per sottolineare l’armonia delle curve.
— Piantala.
Marion riportò la gamba sotto il lenzuolo e cominciò a emettere suoni schioccanti. — L’interno della sua bocca è strano. Non è abbastanza grande, o qualcosa del genere. Però per baciarsi va bene, eh, Nickie? — All’improvviso, tese le braccia, inarcò il corpo sotto il lenzuolo sino a farlo appoggiare soltanto su spalle e talloni. — Oh, è meraviglioso, Nick! Tutto è meraviglioso! È meraviglioso semplicemente potersi stiracchiare! Me n’ero dimenticata! — Si rimise sdraiata, e vide il vassoio sul pavimento, dalla sua parte. — Ehi! È un sacco di tempo che non bevo champagne! — Si sporse dal letto, riempì due bicchieri, si girò e me ne passò uno. Io sorseggiai il mio di pessimo umore. Lei assaggiò, poi mandò giù d’un fiato. — Ragazzi! Se è buono! Dove la trovi roba del genere?
— In un negozio di liquori dalle parti di Haight Street.
— I distillatori clandestini hanno un negozio?
— No. Il proibizionismo è finito, Marion. Da molto prima che io nascessi.
— Be’, un sacco di problemi in meno. — Marion prese la bottiglia, riempì il suo bicchiere, tenne in mano la bottiglia, impaziente, finché io non ebbi finito di bere, poi fece il rifornimento anche a me.
— Marion, devi andartene. E lasciarci in pace. Devi.
— Finché resta ancora dello champagne? Tu non conosci Marion Marsh.
— Sto cominciando a conoscerla.
Finimmo la bottiglia; restava meno di mezzo bicchiere a testa. Marion svuotò il suo, la testa piegata all’indietro, assaporando le ultime gocce, poi mise il bicchiere sul comodino e schioccò le labbra. — C’è bisogno di un altro po’ di questa ottima, ottima roba, Nickie.
— Mai. Tu devi andartene, porca miseria!
Lei lanciò via il lenzuolo e si alzò, nuda e bellissima. Andò all’armadio. L’anta della parte di Jan era aperta. Marion infilò un piede e poi l’altro in un vecchio paio di scarpe di Jan, le uniche coi tacchi alti. Prese la borsetta di Jan dal cassettone, si girò verso la porta della stanza; e mentre usciva, allungò un braccio nell’armadio e prese il soprabito di Jan.
A tempo di record, indossai calzoni e camicia direttamente sopra la giacca del pigiama, e un paio di mocassini sui piedi nudi. Infilai la camicia nei pantaloni mentre correvo giù per le scale. Ma quando arrivai al marciapiede, lei aveva già fatto un bel pezzo di strada. Era quasi all’angolo. Saltai sulla Packard e cominciai a scendere la collina, accelerando per quanto osavo. Prima che io raggiungessi l’angolo, lei svoltò a destra.
Le tenni dietro. Mi infilai direttamente in un parcheggio in fondo all’isolato. Marion era cinquanta metri più avanti di me. Superati il negozio di gastronomia, il salone di bellezza e il parrucchiere, si dirigeva al negozio di liquori la cui insegna si protendeva sul marciapiede, in fondo all’isolato. Quasi direttamente sotto l’insegna, una donna robusta era girata nella direzione dalla quale arrivava Marion. Stava muovendo la bocca, e dopo avere spento il motore mi resi conto che stava chiedendo aiuto con un fil di voce. Ripeté l’invocazione, senza urlarla, quasi sussurrando: — Aiuto. — Poi disse: — Polizia. — Non guardava Marion, ma la schiena di un uomo che si stava allontanando da lei. L’uomo non era vecchio, come mi era parso a una prima occhiata, ma solo molto malconcio. Indossava un cappotto eccessivamente lungo e sporco che gli arrivava fino alle scarpe slacciate; in testa aveva una cuffia abbassata su orecchie e fronte. Stava scrutando Marion, mi resi conto; e in quell’istante, a una decina di metri da Marion, continuando a camminare a passi misurati, l’uomo spalancò il cappotto. Io bestemmiai e scesi dall’automobile. Perché, a parte le scarpe, l’uomo era completamente nudo sotto il cappotto: un esibizionista che teneva ben discosti l’uno dall’altro i lembi del cappotto, gli occhi puntati in quelli di Marion.