Marion non strillò, non rallentò, non distolse lo sguardo, non esitò. All’istante, spalancò il proprio soprabito; e i due, nudi come vermi sotto quell’unico strato di stoffa, fecero ancora qualche passo l’uno verso l’altro, mostrandosi come mamma li aveva fatti.
L’uomo, scioccato, restò a bocca aperta. Si fermò, guardò orripilato; poi alzò le braccia, si riavvolse nel cappotto, se lo strinse addosso, girò sui tacchi e scappò.
Si trovò a correre nella direzione della donna robusta, la quale urlò, si girò, e si diede alla fuga. Tutti e due (la donna che barcollava per il panico, l’uomo che strascicava i piedi per non perdere le scarpe) corsero in strada con una lentezza surreale. Marion, di nuovo avvolta nel soprabito, fece la sua maestosa entrata nel negozio di liquori.
Ero troppo scosso da una risata muta, con le spalle che mi tremavano, per protestare quando la seguii in negozio. Lei comperò quattro bottiglie di champagne. Dei soldi che c’erano nella borsetta di Jan rimasero solo diciannove cents.
Ricordo con una chiarezza abbagliante una parte di ciò che accadde dopo, e del resto non so nulla. Ricordo una corsa giù per le scale interne di casa mia, bottiglie alla mano; Marion indossava la vestaglia rossa con decorazioni in oro e le pantofole di Jan. Sul portico, bussammo a forza di pugni alla porta dei Platt, torcendoci dalle risate. E ricordo le loro facce quando corsero alla porta, la spalancarono, e si trovarono di fronte noi due. Stavano pranzando. Ricordo di averli invitati su a bere champagne, ma non ricordo che siano venuti.
E ricordo Marion e me in cucina, intenti ad aprire una bottiglia di champagne: io la tenevo ferma, e lei girava il tappo. Al grattò alla sua porticina, e io la aprii con un piede. Lui spinse col naso, entrò, e si fermò di botto. Immobile, paralizzato a metà di un passo, fissò Marion. Ovviamente, non riconosceva Jan; quella era un’estranea, e lui la studiò con cautela. Poi Marion estrasse il tappo, si chinò, schioccò amabilmente le dita, e Al le si avvicinò prudentemente. Qualche grattatina sul collo, ed erano amici.
Dovevano essere arrivati i Platt, perché erano lì: Frank sul sedile del bovindo, un bicchiere in mano, pronto a sorridere a qualunque cosa succedesse o venisse detta; Myrtle che scendeva di corsa a casa sua, poi tornava su con un mucchio di vecchi dischi che mise sul tavolino da caffè. Marion frugò nei dischi, disse: — Per mille capperelli, Eddie Cantor! — e me ne passò tre o quattro. Riuscii a infilarli sull’asta del giradischi dopo un paio di tentativi, accesi l’apparecchio, e il suono uscì alla velocità della voce di Paperino, e ululammo tutti. Marion ne fu deliziata; era la prima volta che sentiva musica così veloce. Regolai il giradischi sui 78 giri e ripartimmo.
Ricordo chiaramente di essermi sdraiato sul divano, a grattare le orecchie di Al. Myrtle e Frank, fianco a fianco sul sedile, sorridevano mentre Marion cantava le parole di Ida! Sweet As Apple Cider!, schioccando le dita, all’unisono con la voce ricca, melodiosa di Eddie Cantor. E ricordo Marion insegnarci “come balla Eddie Cantor”. Ci disse di allargare le dita di entrambe le mani, poi avvicinare le mani l’una all’altra e staccarle subito dopo, facendo toccare soltanto le punte delle dita, in una sorta di applauso muto. Diventati padroni di quella tecnica con l’aiuto di altro champagne, Marion ci insegnò a sgranare gli occhi in modo esagerato facendoli roteare di continuo nelle orbite. Dopo di che, roteando gli occhi, applaudendo con le punte delle dita, sollevando il più possibile le ginocchia, cominciammo a dimenarci nella stanza al ritmo di Makin’ Whoopee! Al abbaiava.
Se quello era il modo di ballare di Eddie Cantor, ci piaceva, e tutti quanti sembravamo conoscere più o meno bene le parole di Makin’ Whoopee!; compreso Al, che le ululava con la testa rivolta al soffitto. Accompagnati dalla voce a tutto volume di Eddie Cantor, urlammo e ululammo la canzone, dimenandoci per tutte le stanze della casa nello stile di danza di Eddie Cantor. Pavimenti e vetri delle finestre vibravano, e dopo un po’ da una parete del soggiorno cadde una fotografia incorniciata.
Però non mi sembrò mai di essere ubriaco; o se lo ero, lo champagne mi provocava una forma diversa, più leggera di sbornia. Il pomeriggio passò al volo. Marion continuava a chiedermi che ore fossero, all’infinito mi parve, anche se la cosa non mi diede mai fastidio. Io sorridevo e rispondevo: — Un quarto alle cinque — … — Le sei e quindici — … — Le sette appena passate — …Non ricordo quando noi due abbiamo cominciato a ballare, però ricordo che a un certo punto ballavamo con aria sognante, guancia a guancia, senza quasi muoverci, al ritmo di The Sheik of Araby cantata da Rudy Vallee. Myrtle, seduta sul divano, ci sorrideva raggiante; Frank dormiva su una sedia. Ricordo con un forte, netto imbarazzo il mio cretinissimo senso d’orgoglio all’idea che Marion mi ritenesse degno di tanto disturbo. Le mormorai qualche parola per dirglielo. Lei rispose: — Credi di essere l’unico motivo per il quale sono tornata? Non prenderti in giro da solo, sceicco. Ho motivi molto più consistenti di questo, mi puoi credere! Che ore sono? — Ballando, passammo davanti a Myrtle, e lei disse che era meraviglioso vedere quanta dolcezza, quanta passione esistesse ancora fra Jan e me, e la mia coscienza si mise a urlare. Ma che altro posso fare?, mi chiesi mentalmente. Starmene isolato in un angolo finché lei non se ne andrà?
Ricordo di avere chiuso la portiera della Packard, di avere abbandonato la testa sulla pelle imbottita del sedile, di avere sentito sbattere l’altra portiera e il motore accendersi.
Quando mi svegliai, al volante c’era Marion, e anche se restava dello champagne nelle mie vene e nella mia mente, ancora non mi pareva di essere ubriaco. Aprii gli occhi, con la testa appoggiata all’indietro. Vidi il profilo basso di un edificio scorrere al nostro fianco, e mi resi conto di averlo già visto in passato. Stavamo rallentando all’altezza del marciapiede; era stato quello a svegliarmi. E sì, conoscevo le superfici a tegole del tetto, le mura con lo stucco beige, le porte ad arco di quell’edificio vagamente in stile missione. Cos’era?
Mi tirai su, restai a guardare mentre ci fermavamo. Marion tirò il freno a mano, spense motore e fari. L’edificio era ancora bello, però ormai vecchio, debolmente illuminato da luci troppo scarse; e accanto al lungo marciapiede con il bordo dipinto di rosso non era parcheggiata nemmeno un’altra automobile. — Nick, spicciati! Sistema l’automobile da qualche parte, portala in un garage. Faremo tardi! — Mi girai. Avvolta nel soprabito di Jan, Marion stava scendendo. Chiuse la portiera, fece il giro dell’auto, corse sul marciapiede, ed entrò da una delle porte a due ante disseminate lungo tutta la facciata dell’edificio.
Non sapevo di cosa stesse parlando Marion, però adesso sapevo dove ci trovassimo: eravamo alla stazione ferroviaria. Dopo un momento o giù di lì, scesi dall’auto, entrai, e mi fermai. Al lato opposto del locale, Marion era a uno sportello della biglietteria, girata di schiena. A parte l’impiegato allo sportello, c’era solo un’altra persona in tutta la sala d’attesa, un vecchio che aspettava seduto su una delle lunghe panche in legno. In mezzo ai piedi teneva un sacchetto di carta marrone con l’intera superficie spiegazzata, come fosse stata piegata e ripiegata un’infinità di volte.
Marion si girò, lasciò lo sportello, arrivò al centro della sala e si fermò. Io mi incamminai verso lei, ma lei non mi vide subito. Si stava guardando attorno, scrutava la vecchia stazione, studiava persino il soffitto. Avvicinandomi, notai che i suoi occhi erano esterrefatti. Quando udì i miei passi, si girò. — Nick, dice che il Lark non c’è più! — Si voltò a guardare l’impiegato all’unico sportello aperto; un ragazzo di non più di diciannove anni, un messicano con un filo di baffi, in maniche di camicia. I gomiti sul piano dello sportello, il mento sulle palme delle mani, leggeva una rivista. — Dice che non c’è più nessun treno notturno per Los Angeles! — Le parole di Marion erano un gemito. Temevo che potesse mettersi a piangere.