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— Lo so. — Tesi una mano sul suo gomito. Dolcemente, le dissi: — Marion, la gente non viaggia più in treno. Non ce ne sono quasi più.

Lei non rispose, non si mosse. Si guardò attorno, a lungo. Scrutò la panche deserte e male in arnese; la lunga fila di sportelli, quasi tutti chiusi da assi di compensato; il ristorante dalla vetrina polverosa in un angolo della sala d’aspetto, con le grandi maniglie della porta d’ingresso bloccate da catena e lucchetto; il grande cartello elettrico in alto con la scritta ARRIVI-PARTENZE, che al momento annunciava solo il nulla; la tavola calda smantellata, con la fila di supporti metallici degli sgabelli ancora inchiodata al pavimento, mentre gli sgabelli erano scomparsi. Disse: — Sono venuta qui una sera. Recitavo all’Alcazar. Ero nel primo e nel terzo atto, ma non nel secondo, così ho avuto il tempo di correre qui e tornare a teatro per rientrare in scena. Doug Fairbanks e Mary Pickford stavano partendo per Hollywood.

“Tornavano a casa a Pickfair. Si erano fermati qui tre giorni. Avevano visto la commedia in cui recitavo la seconda sera, dalla quinta fila. Li avevo riconosciuti. E adesso rientravano a Hollywood. Sul Lark, ovviamente. Sono arrivata qui in tempo per vederli scendere da una grossa automobile verde scuro, con la capote di tela abbassata. Era una bella sera. È successo proprio lì.” Annuì in direzione della strada e si avviò verso la porta aperta. Io la seguii, continuando a tenerla per il gomito. “Doug salutava con la mano e sorrideva, con quel suo meraviglioso sorriso, e intanto aiutava Mary a scendere dall’auto. E anche lei aveva sulle labbra il suo bellissimo sorriso.” Ci fermammo sul marciapiede. Marion fissò la strada buia, deserta. “Lei aveva tra le braccia un mazzo enorme di rose gialle. E la loro automobile era ferma esattamente dove ho parcheggiato la tua. Qualcuno aveva tenuto libero lo spazio per loro. Però io non sono riuscita ad avvicinarmi. Sul marciapiede e in strada dovevano esserci un migliaio di persone che urlavano ‘Doug! Mary!’ Quelli più vicini cercavano di toccarli. Doug continuava a sorridere, e teneva un braccio attorno a Mary, e intanto percorrevano il marciapiede. Proprio qui, in questo punto esatto! La gente che arrivava per prendere il Lark… ce n’erano centinaia tutte le sere, Nick!… era costretta a scendere da taxi e automobili in mezzo alla strada, ai margini della folla. E la gente si alzava sui predellini delle auto, saltava in aria per cercare di vedere Doug e Mary sopra le teste della folla. Poi tutti li hanno seguiti dentro. Le entrate erano intasate. Siamo andati tutti a vederli partire. Quando il Lark ha lasciato la stazione, in perfetto orario, Doug e Mary erano sulla piattaforma panoramica, appena sopra il grosso cartello rotondo che diceva Lark. Doug salutava la folla col braccio, e Mary lanciava le sue rose alla gente, a una a una. Qualcuno si è messo a correre sul marciapiede a fianco del treno per poterli vedere fino in ultimo. Doug ha continuato a salutare e Mary a scoccare baci finché il treno non è scomparso in lontananza, e noi abbiamo risposto ai loro saluti finché sono rimasti solo due fanalini rossi e il cartello illuminato con la scritta Lark.” Marion si girò a guardare la facciata scolorita della stazione, poi si voltò di scatto, e percorremmo il marciapiede deserto fino all’automobile.

Guidai io, tenendo d’occhio Marion. Si girava a guardare la città che correva al nostro fianco, abbassava gli occhi sul pavimento dell’automobile, guardava di nuovo la città. Dopo un po’, a occhi bassi, disse: — Portami a O’Farrell Street, ti spiace, Nick? Tra la Mason e la Powell — e io annuii.

Attraversai Market Street, imboccai la O’Farrell, aspettai a un semaforo della Mason, poi ripartii lentamente verso la Powell. A metà di un isolato rallentai. — Qui?

— Un po’ più avanti, credo… No, adesso siamo troppo avanti. Oppure no? Aspetta.

Accostai al marciapiede. La capote era ancora abbassata, e Marion si girò a guardare dal retro dell’auto, poi si chinò in avanti, scrutando dal parabrezza. Studiò un edificio appena davanti a noi, sull’altro lato della via. — Moatle? E cosa significa? — Indicava un’enorme insegna in plastica gialla, rossa e bianca sulla facciata dell’edificio.

— Motel — la corressi. — È… una specie di hotel. Però senza atrio o cose del genere. Soltanto stanze e il posto per parcheggiare l’automobile… — La mia voce si spense. Marion stava scuotendo la testa per zittirmi. Chiuse gli occhi e girò la testa nella direzione opposta.

Poi riaprì gli occhi e fissò di nuovo il motel. — Ma guardalo! — disse, rabbiosa. — Gesù, com’è brutto! Portami via di qui, Nick. Un tempo lì c’era l’Alcazar.

Un isolato più avanti chiesi: — Qualcosa d’altro?

— Niente.

— Allora forse dovresti spiegarmi cosa avevi in mente prima. Alla stazione.

Irrequieta, lei rispose: — Dovevamo andare a Hollywood.

— A Hollywood. — Annuii. — E perché?

— Perché? Hai visto Ragazze focose! Ero grande — disse semplicemente lei. — Stavo già lavorando in un altro film. E in quello ero ancora più grande. Saremmo andati a Hollywood, Nickie. Come avremmo dovuto fare l’altra volta! Così avrei potuto riprendere la mia carriera.

Annuii ripetutamente, poi dissi con molta dolcezza: — Be’, adesso lo sai. Questo è un mondo diverso, Marion. L’Alcazar è scomparso. Come il Lark. E magari tra un po’ sparirà anche la stazione ferroviaria. E il mondo si sta riempiendo di motel. Ragazze focose è stato tanto, tanto tempo fa. E io non sono mio padre.

Lei annuì, poi abbandonò la testa sul sedile, e io la guardai. Aveva gli occhi chiusi; le lacrime le colavano sulle guance. — Porca miseria. Avevo davanti una grande carriera!

Arrivati a casa, misi il freno a mano. Marion aprì gli occhi e alzò la testa a guardare la casa. Restò a fissarla per qualche secondo, poi si girò verso me. — Addio, Nickie. — Scosse la testa a movimenti lenti. — Sono stanca, così stanca. — Poi sorrise e mi mise una mano sulla spalla. — Però è stato bello, no? — Non le risposi. Dire di sì mi sembrava sleale nei confronti di Jan, e mi sentivo già abbastanza in colpa. — E dai, Nickie — mi sollecitò lei, delusa di me — di’ che è stato bello. Non ti succederà niente.

Restai a guardarla per qualche attimo. — Te ne vai sul serio? Per sempre?

Lei annuì, e deglutì. — Sì.

— Va bene — dissi. — Perché no, allora? Ammetterò che è stato bello perché lo è stato. Non posso farci niente. — Ci riflettei su, poi le sorrisi. — Quindi sì, è stato molto bello, Marion. In effetti, è stato meraviglioso, e io non lo dimenticherò mai.

— Perbacco. — Lei sorrise e appoggiò la testa sul sedile.

Mi sentivo enormemente meglio solo per il fatto di riuscire a dire quelle cose, ammettere la verità. — Sei una ragazza fantastica, Marion. Diversa da tutte le altre che ho conosciuto. Per più di un verso.

— Raccontalo a tutti — mormorò lei, a occhi chiusi. — Io mi impappinerei.

— Non chiedermi di fare paragoni fra te e Jan, perché non li farò. — Fissavo, attraverso il parabrezza, la strada deserta. — Però all’inferno, sì, ammetterò che è stato bello. È stato meraviglioso, Marion. Assolutamente meraviglioso.