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— Di che cavolo stai parlando? — Lei si tirò su.

— Jan…?

— Jan? Ma certo che sono Jan. — Si guardò attorno, poi disse: — Oh, mio Dio — e portò una mano alla fronte, abbassando le palpebre. — Nickie… Non mi sento troppo bene. Un’altra volta! — aggiunse, e spalancò gli occhi. — Nick, abbiamo bevuto ancora, eh? Ho gli stessi… ricordi frammentari. Qualche lampo a tratti. Cosa ci sta succedendo? Bere in questo modo due sere di fila come… come se fossimo tornati agli anni Venti o qualcosa del genere!

— Champagne per il doposbornia. È stato quello il nostro grande errore. — Mi protesi ad aprirle la portiera, per troncare la conversazione, e lei scese.

Ma a casa nostra, tutte le luci erano accese, i mobili del soggiorno erano spostati, c’erano patatine fritte rovesciate per tutto il tappeto, una bottiglia vuota di champagne su una sedia, e, trionfo finale dell’anarchia, Al stava dormendo sul divano. Jan guardò, poi scosse la testa, e percorremmo il corridoio verso la camera da letto. Sulla soglia lei si fermò di botto. — Cosa diavolo ci fa il letto al centro della stanza?

— Be’. Hai. Detto. Che. Volevi risistemare l’arredamento.

Non mi ascoltava. Entrata nella stanza, puntò l’indice sul pavimento. — E cosa ci fanno i calzoni del tuo pigiama ?

— Be’… — Tentai un sorrisetto sconcio. — Ce li hai buttati tu.

— Non lo ricordo. — Jan aggrottò la fronte. — Perché dovrei buttare sul pavimento i calzoni del tuo pigiama? A dire il vero, non ricordo nemmeno che abbiamo… Oppure sì? Ricordo di avere cominciato… — A me parve che la cosa più saggia da fare fosse metterci a letto e spegnere la luce, e cominciai a slacciarmi la camicia. Ma Jan adesso puntava l’indice in alto, verso l’anta aperta dell’armadio, e la sua bocca era spalancata per lo stupore. — Cosa ci fanno lassù i tuoi calzoni da sci?

— Be’. Tu. Volevi aggiustarli. Li hai messi lì per ricordartelo. Uno dei risvolti si è scucito. Vedi?

— Aggiustarli? I tuoi calzoni da sci? Perché dovrebbero venirmi in mente in un momento come… — Jan si era girata. Si stava sbottonando il soprabito, e restò a fissarmi. — Hai sotto la giacca del pigiama!

— Cristo! — Avevo esaurito le risposte, ma Jan non lo notò. Si fermò a riflettere, poi andò a passi lenti all’armadio, si tolse il soprabito, lo appese, si voltò, poi si accorse del vestito che indossava: cortissimo, e decorato da quelle che sembravano manciate gettate a caso di colori fondamentali. — Avevo detto che non lo avrei mai più messo… Odio questo vestito!

Andò al letto e sedette, scrutando pensosa la stanza. Io, cercando di non dare nell’occhio, recuperai i calzoni del pigiama facendo il minor rumore possibile. Li agganciai col piede, mi tolsi i pantaloni, infilai quelli del pigiama. Stavo appendendo i calzoni quando sentii Jan mormorare: — Adesso mi ricordo di quando lo abbiamo fatto. — Mi girai di scatto a guardarla, ma lei sorrideva e annuiva. — Più o meno — aggiunse. — Una cosa selvaggia… Mio Dio. — Alzò gli occhi su me, improvvisamente felice. — E tu hai detto che è stato meraviglioso. Hai detto che è stato assolutamente meraviglioso. Oh, Nickie, era tanto tempo che non mi dicevi una cosa del genere. — Tentai di sorridere, trattenendo il fiato.

Jan intrecciò le mani in grembo, e il suo viso si fece pensoso. — Ma è come se… non fossi stata io. Lo ero, ovviamente, però… — Scosse la testa. — Però non lo ero. Non so nemmeno cosa voglia esattamente dire, però… — Scosse ancora la testa. — Mi ricordo di quando lo abbiamo fatto. Più o meno. A brandelli? — Restò a fissare il nulla, poi ripeté seccamente, testardamente: — Però non ero io. — Io rimasi immobile all’altro lato della stanza, in pigiama, aspettando. Jan si girò di colpo a guardarmi, a occhi sgranati. — E non ero io ieri sera! Ballare! Cantare! Fare la figura dell’idiota su quella piattaforma! Non farei mai cose simili! — Io pensai di mettermi a strillare, buttarmi sul pavimento, zoppicare su una sola gamba come se l’altra avesse un crampo, ma restai immobile, ipnotizzato. Jan si voltò di nuovo verso la parete. Con estrema lentezza, disse: — E non ero io nemmeno due sere fa. Qui. A letto. Dopo il film di Marion. — Muovendosi come in trance, Jan si alzò. In un soffio, mormorò: — Marion… Ecco cosa hai detto in automobile. «È stato assolutamente meraviglioso… Marion.» — Lo strillò. — Hai detto MARION! Mio Dio… — Crollò a sedere di colpo. — Si è… impossessata di me. Giusto? E tu lo sapevi. Tu lo sapevi! Oh, Nickie — gemette. — Non mi sarei mai sognata che tu potessi tradirmi!

Mentii. Corsi al letto, sedetti al suo fianco, passai un braccio attorno alle sue spalle tremanti; e ascoltandomi mi trovai convincente, perché cominciai con la verità. — Non lo sapevo, Jan! Sono venuto a letto dopo il film di Marion. Tu ti sei svegliata, e… Credevo fossi tu! Mio Dio, perché non avrei dovuto crederlo? — Sotto il mio braccio, il tremito si fermò. Lei mi guardò, e sul suo viso lessi la consapevolezza che quella doveva essere la verità. Poi cominciò la menzogna. — Stessa cosa la sera dopo. Dopo il party con gli Hurst, credevo fossi t…

— In campagna? In automobile? Credevi fossi io!?

— Be’, porco diavolo, sembravi tu! E non dimenticare che eravamo ubriachi.

Lei rifletté, poi scosse la testa, e sottrasse le spalle al mio abbraccio. — Però stamattina sapevi. Perché prima, in automobile, hai detto «E stato meraviglioso, Marion!» Hai una relazione con lei!

— Oh, per amor…

— Vuoi il divorzio?

— Jan, per amor del cielo! E per cosa? Per sposare Marion? — In tono rassicurante, le dissi: — Piccola, piccola, stammi a sentire. Oggi lo sapevo, sì. Ma l’ho scoperto solo… durante.

— E con ciò?

— E con ciò cosa?

— Quando hai capito che non ero io, perché non hai smesso?

— SMETTERE!? Mio Dio, che ispirazione. L’idea è tipica, assolutamente tipica di una quantità di cose che in questa casa non vanno!

Lei saltò su, afferrò l’orlo del vestito di Marion con entrambe le mani, se lo tolse di dosso con un gesto rabbioso; e, scoppiando in lacrime, cominciò a stracciarlo in tanti pezzi; e l’emicrania in agguato nella mia testa sin dal mattino decollò a razzo.

5

Domenica mattina, quando entrai in cucina, la colazione era sul fuoco, e io sorrisi e dissi: — Buongiorno — a Jan. Ma lei si limitò ad annuire, e non parlò, non sorrise. Mentre mangiavamo lasciai entrare Al per rallegrare un po’ l’atmosfera, e ogni tanto gli lanciai un pezzo di pane tostato. Come sempre con tutto ciò che gli veniva gettato, il pane cadeva sul pavimento o rimbalzava sul suo naso, e lui doveva andare in cerca del cibo, fiutando come un cane da tartufi. Jan, seduta di fronte a me, era totalmente presa dalla prima pagina del giornale, e io cominciai a parlarle attraverso Al. — Vuoi dire a Jan di passarmi lo zucchero, Al? Grazie… Chiedi a Jan se vuole ancora un po’ di questo caffè assolutamente delizioso. E versalo anche per te, naturalmente.

Dopo un po’ lei accennò un sorriso debole, e disse ad Aclass="underline"  — Digli che oggi può aiutarmi a fare le pulizie di casa. Ce n’è bisogno!

Sopravvivemmo alla giornata trattandoci con estrema cortesia, leggendo da cima a fondo ogni singola parte del giornale; e nel pomeriggio, pulita la casa, Jan fece un sonnellino e io andai a fare una passeggiata con Al.