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Ma lunedì sera, quando tornai a casa, lei aveva preparato in soggiorno, sul tavolino da caffè, drink e una ciotola di patatine fritte, e sedemmo a goderci il tutto sul divano, con le schiene rivolte alla parete di Marion. Jan disse che aveva riflettuto. Capiva che ero stato ingannato, e che non era giusto colpevolizzarmi. Lo disse la sua bocca, ma non i suoi occhi; non del tutto; non ancora.

Ma se non altro, ci eravamo riconciliati, per lo meno ufficialmente. Jan, seduta col drink in mano, con una voce che era la parodia della perfetta casalinga e un sorriso in tono, mi chiese: — Allora, amore? Com’è andata la giornata in ufficio?

— Rompiti una gamba — le risposi amabilmente. Poi Al arrivò a salutarmi e accettare qualche patatina. — E com’è andata la tua giornata, Al? — chiesi.

Jan rispose: — Pesante. Ha dovuto abbaiare all’uomo della spazzatura e all’uomo del gas, tutto in un solo ricco giorno.

— Be’, è il suo lavoro, no? — dissi ad Al. — Fa parte della posizione di cane. A tutto l’abbaiare ci pensa lui. Con le sue sole forze. Nessun altro lo aiuta o si offre di aiutarlo, ma lui non si lamenta mai. — Mi ero chinato in avanti verso lui, e anche se sono piuttosto in gamba a schivare, quella volta mi centrò alla guancia con la lingua. Asciugandomi il viso con uno dei fazzolettini di carta che Jan aveva preparato, dissi: — Esito a parlarne, ma dov’è che voialtri cani avete preso l’idea che essere leccati in faccia da un’umida lingua canina possa sembrare minaccioso? Cinquemila anni di status domestico, e ancora non avete capito che non serve a molto. Prova un po’ a trovare un gatto che lo faccia. — Le orecchie di Al si rizzarono alla parola “gatto”. — Loro sì che sono furbi. — Presi una patatina, e lui restò a fissarla. Gliela diedi e dissi: — Lo sai cosa farò di te, ragazzo mio? Ti spedirò via nave in Danimarca. — Lui si passò la lingua sulla bocca e continuò a guardare la ciotola delle patatine. — Là fanno un’operazione che ti trasformerà in un gatto. — Lui rizzò le orecchie, piegò la testa. — Già. Sforbiceranno quelle orecchie grosse, lunghe, mosce e pendule fino a farle diventare graziose, bellissime orecchie a punta come quelle dei gatti. — Gli lanciai un’altra patatina. — Ti insegnano a camminare sugli steccati. All’inizio usano un apparecchietto a ruote per abituarti, poi sono cavoli tuoi. E c’è un corso rapido di miagolio. Oh, ti piacerà moltissimo essere un gatto! — Gli presi un’orecchia e con quella gli diedi uno schiaffetto sul muso. — Un duello, m’sieu? — e lui mostrò i denti in una pigra, finta minaccia, sventolando la coda. Presi un’ultima patatina e gli indicai qualche briciola che aveva lasciato sul pavimento. — Un altro scherzo del genere, e pago un killer perché ti faccia fuori. Chiaro? — Gettai la patatina. Rimbalzò sul suo naso, e lui si aggirò a cercarla, la individuò (era a un metro circa di distanza), e Jan e io ci sorridemmo.

Parlammo. Le mie ferie cominciavano la settimana successiva, e in mancanza di qualcosa di speciale da fare avevamo deciso di restare a casa: visitare i musei, andare a vedere una commedia che doveva essere piuttosto buona, provare un paio di ristoranti dei quali ci avevano parlato. E c’era ancora la camera degli ospiti da dipingere. Bevemmo un altro drink, e Jan mi raccontò cosa le aveva detto Myrtle Platt quel mattino, quando si erano viste alle cassette della posta.

Nell’insieme eravamo abbastanza rilassati, eppure al tempo stesso tesi, sul chi vive, e restammo in quello stato d’animo per tutta la sera. Marion se n’era andata sul serio? Sembrava di sì, però… A letto non facemmo la pace nell’unico modo che conti. Jan aveva paura, mi disse, e io non potevo certo fargliene una colpa. Parlando al buio, decidemmo che nel periodo di ferie avrei anche tolto la tappezzeria dalla parete di Marion.

Martedì rientrai un po’ tardi: una qualche solenne cretinata in ufficio che avrebbe anche potuto aspettare fino al primo mattino del 2001. Jan era in cucina a preparare la cena. La sentii armeggiare e andai direttamente da lei. La prima cosa che dissi, superando la soglia, fu: — Allora? — e lei afferrò al volo. Scosse la testa, sorridendo, e mi mostrò la destra a dita incrociate: Marion non era tornata. La baciai, la strinsi a me, frugai con la mano libera sotto la sua gonna finché non trovai qualcosa di elastico da far schioccare. Poi mi cambiai d’abito, preparai i drink sul gocciolatoio di legno, e bevemmo. Jan restò quasi incollata ai fornelli, io mi appoggiai al lavandino.

Le chiesi: — Jan, cosa provi? All’idea di essere stata… invasata? — Mi pareva che ormai se ne potesse parlare.

— È orribile. — Aveva aperto il forno e stava tastando con la forchetta qualcosa che sfrigolava. — È stato terribile, Nick — aggiunse, armeggiando con la forchetta; poi chiuse lo sportello e si rialzò. — Ero atterrita. — Annuii. Jan sorseggiava il suo drink distrattamente, gli occhi puntati su Al, che era affascinato dalle sue attività al forno. Poi scosse la testa e depositò il bicchiere sul piano d’appoggio più vicino ai fornelli. — No — disse. — Non è questo che provo. È quello che credo di dover provare, e basta. È stato spaventoso. — Ci pensò su. — Vagamente… spettrale. — Sorrise all’aggettivo. — Intravedevo solo in maniera vaga quello che faceva lei. Era tutto molto sfumato. Come guardare attraverso una decina di lastre di vetro. E solo per un istante ogni tanto… Quando lei si stancava, immagino, e per un attimo doveva allentare la presa.

— E com’erano, questi momenti occasionali?

Lei rifletté, poi sorrise, sorpresa della sua stessa risposta. — Interessanti. La vita certe volte può essere un po’ noiosa, è ovvio. Succede a tutti. E devo ammettere che era interessante essere, come dire?, precipitata nella mente e nelle sensazioni di qualcun altro. Qualcuno eccitato e soddisfatto praticamente di tutto ciò che vedeva. È affascinante sapere, sapere sul serio, Nick, come appaiono le cose viste dalla mente di un altro. — Sorseggiò dal bicchiere. Sembrava (la mia impressione era esatta? Non ne ero certo) un po’ triste, e all’improvviso io ebbi la bizzarra sensazione che forse qualcosa fosse scomparso dalla sua vita. Sorseggiando sovrappensiero il suo drink, Jan restò a fissare il nulla; poi i suoi occhi si puntarono su me, sputando lampi di rabbia. — E pensava che tu fossi il miele della vita! — Si voltò, si chinò a spalancare lo sportello del forno e tastare con la forchetta quello che c’era dentro.

Dopo un po’ si tirò su, fece le sue scuse, e io sorrisi, le dissi che era tutto a posto, e… Be’, sopravvivemmo anche a martedì.

Un mercoledì sì e uno no, Jan scendeva a giocare a bridge con Myrtle Platt e un paio di amiche di Myrtle, e Al e io le davamo sempre una mano con i piatti, in modo che potesse uscire al più presto: Al faceva fuori gli avanzi che gli gettavo mentre davo una prima ripulita ai piatti che Jan doveva lavare. Lei si cambiò d’abito, scese, e io mi aggirai un po’ per casa, in cerca di qualcosa da leggere. Quel giorno era arrivato un catalogo di film della Blackhawk, e io sedetti sotto il bovindo (c’era ancora un po’ di luce solare) e segnai un paio di cose che mi sarebbe piaciuto comperare prima o poi, magari per Natale: la versione del 1920 di Il dottor Jekyll e Mr. Hyde, con Nita Naldi, il mio secondo nome preferito nella storia del cinema muto (il primo è Lya de Putti), e magari The Social Secretary con Norma Talmadge ed Erich von Stroheim. Misi giù il catalogo, e per qualche momento restai a guardare la parete di Marion. Marion Marsh ha vissuto qui, lessi di nuovo. 14 giugno 1926. Lo schienale del divano nascondeva il resto. Poi mi alzai, andai in cucina, sollevai il ricevitore del telefono, e composi il prefisso di zona e il numero di mio padre. Erano circa le venti da noi, le ventidue a Chicago. Lui rispose, e chiacchierammo: di tanto in tanto, uno di noi due chiamava l’altro, soprattutto quando eravamo in ritardo con la corrispondenza. Papà aveva incontrato al Loop un mio vecchio amico, Eddie Krueger, che aveva frequentato molto casa nostra quando io facevo le superiori e quando tornavo a casa dal college per le vacanze, con mia madre ancora viva. — E — disse papà — il clima fa schifo, ma c’era da aspettarselo.