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— Già. Senti, volevo chiederti una cosa, papà. Semplice curiosità, ma ci sto pensando da un po’.

— Spara.

— Okay. I Venti. Mi chiedevo…

— I cosa?

— Gli anni Venti. Millenovecentoventi e dintorni.

— Ah. Cosa volevi sapere?

— Erano davvero grandi come si legge sempre? Erano proprio così diversi da oggi? La gente era diversa?

Ci fu una lunga pausa. Nel timore che fosse caduta la linea, aprii la bocca per aggiungere qualcosa, ma mio padre rispose proprio allora. — Be’, ci ho riflettuto anch’io. Devi tenere presente che almeno una parte dei Venti sono stati anche i miei vent’anni. Ero giovane, spensierato, e quando ripensi alla tua giovinezza tendi a vederla attraverso lenti colorate di rosa. E in generale, tendiamo a ricordare il bello del passato e dimenticare il brutto. Sugli anni Venti si è fatta anche molta propaganda. Sono stati molto esaltati. Posto tutto questo, Nick, avendo a mente queste cose e tenendole ben presenti… la risposta è diavolo, sì. Ah, Nick, sono stati un grande periodo. Un’epoca così diversa. Tutto era diverso, allora. Era un momento splendido e glorioso per essere vivi e giovani.

— Ma perché? In che senso?

Un’altra pausa. — Non riuscirò a spiegartelo esattamente. Le cose erano così maledettamente diverse. L’epoca, l’aspetto esteriore delle cose, il Paese stesso. Al diavolo, persino l’odore delle drogherie. E mio Dio, sì, la gente era diversa. Eravamo più fessi. Nemmeno lontanamente furbi quanto voi. A ventun anni, non mi è mai passata per la testa l’idea di mettere in discussione il perché di un certo stato di cose. Così come tu non metteresti in discussione il fatto che al mattino debba spuntare il sole, o che d’inverno debba nevicare. Però a me sembra che fossimo più cordiali. Più tolleranti. Non ricordo l’odio che esiste oggi. Eravamo più rilassati, più interessati alle cose. Eravamo più vivi, cavoli! Sapevamo divertirci. Credo sapessimo a cosa serve vivere. Non riesco proprio a spiegartelo, Nick. Era solo un’epoca migliore. Ritengo di essere stato fortunato a essere giovane negli anni Venti. E provo tristezza per i giovani di oggi. È tutto così maledettamente cupo.

Parlammo ancora un po’. Mi chiesi cosa avrebbe detto papà se gli avessi raccontato di Marion, ma ovviamente stetti zitto. Quando Jan tornò, io dormivo. Avevano giocato un rubber in più, mi disse a colazione, ed era stato lungo.

Verso le dieci di sera di giovedì, misi giù una rivista e guardai Jan. Stava lavorando a maglia su qualcosa che prima o poi, in teoria, si sarebbe trasformato in un maglione per me. Restai a guardarla, sapendo benissimo che in effetti dal suo lavoro sarebbe uscito un maglione. Però, emotivamente, mi è sempre impossibile credere che impastando una matassa di filo di lana con un paio di ferri si possa ottenere un capo d’abbigliamento davvero indossabile: cosa lo tiene assieme?

Jan sapeva che la stavo guardando, e finse di non saperlo. Indossava una blusa bianca e una gonna nera, piuttosto severa; però era molto, molto carina. Dissi: — Jan — e lei alzò gli occhi con un sorriso luminoso. I ferri si fermarono. — Se vuoi perdonare la banalità della frase, non possiamo andare avanti in questo modo.

— Lo so… — Lei riabbassò gli occhi sul suo lavoro.

— Allora, se posso offrire un suggerimento a una signora, perché non ci trasferiamo tranquilli e contenti in camera da letto, mano nella mano, e non ci facciamo una scopata?

Lei arrossì come un peperone.

Jan e io dobbiamo essere i fanalini di coda dell’ultima generazione cresciuta nella convinzione che esistano “brutte parole”. Tanti nostri amici sono solo poco più giovani, appena un paio d’anni o giù di lì, ma questa minima differenza deve essere la linea di confine, e loro sono capaci di pronunciare queste parole senza problemi. E anche se sono persone per bene, molto educate, che si guarderebbero dal menzionare certi termini se qualcun altro non ne accennasse, la differenza è lo stesso palpabile. Io me la sono cavata decentemente: ho fatto il militare, e sono un maschio. Ma Jan ha avuto enormi problemi. Ho scoperto (me lo ha confessato lei) che ha fatto pratica in casa. Lavando i piatti della colazione, per esempio, sola in casa, con le mani infilate nell’acqua saponata, si preparava spiritualmente, poi inspirava una boccata d’aria e diceva: — Fottere! — Dapprima, le è parso un verbo tutto sbagliato, capace di provocare scontri e tensioni, assolutamente inadatto alla buona società. Ma ha perseverato, si è abituata a inserire quella e altre parole de rigueur in frasi da tutti i giorni, allenandosi come si potrebbe fare per perfezionare l’accento francese; e finalmente è riuscita a lasciar cadere quei termini nelle sue frasi con la più totale indifferenza, senza sospetti d’enfasi o di mancanza d’enfasi. Alla fine, ha tentato esperimenti dal vivo in quelle che mio padre definirebbe “compagnie eterogenee”, e ha ottenuto splendidi risultati. Le veniva perfettamente naturale; l’unico problema era che assumeva un colorito rosso acceso, e rimaneva in quello stato per trenta minuti.

Adesso era rossa in volto, ma annuì allegramente. — Lasciami solo finire questo ferro.

Quando lei arrivò in camera da letto, io mi stavo abbottonando la giacca del pigiama, e con le dita dei piedi grattavo le costole di Al; lui era sdraiato sul nostro scendiletto, in preda al suo coma del dopocena. — Sarà meglio biscottarlo fuori — disse Jan.

Mi accoccolai a fianco di Al e gli battei sulla spalla. Un occhio castano si socchiuse di qualche millimetro, e io gli feci l’imperioso gesto dell’arbitro che espelle un giocatore, battendo col pollice sul suo corpo, e l’occhio si chiuse. — Dice che non ha voglia di uscire.

— Be’, deve uscire. Nickie… Ho paura.

— Già, anch’io. — Battei di nuovo sulla spalla di Al. Questa volta lui non aprì un occhio. — Dice che ha diritto a restare qui quanto chiunque altro. Dice che è un essere umano anche lui.

— Be’, digli che le persone col pelo sulle palpebre non sono affatto umane. Hai paura davvero?

— Sì. Non voglio che lei torni. Però…

— Lo so, lo so.

— Tu non sei per niente un essere umano. Sei un cane! Credi che non riusciamo a capire la differenza? — Sollevai la coda inerte di Al. — E questa? — Alzai una delle sue lunghe orecchie. — Come la spieghi questa qui? — Gli battei l’indice sul naso nero, gommoso. — E questo! — Afferrai una zampa. — E questa! Abbiamo un sacco di indizi. Non puoi fregarci! — Guardai Jan, che si stava slacciando la gonna. — Ma se preferisci non farlo…

— Oh, no! No. Non possiamo. Andare avanti. All’infinito. Senza.

Al stava sbattendo fiaccamente la coda, e io gli feci notare: — Quel movimento è la prova decisiva, conclusiva. Tu sei un cane. Dai, vieni a prendere il tuo biscotto. — Lui si tirò su, sbadigliò, si stiracchiò, sorrise a Jan, e mi seguì in corridoio. Quando tornai, Jan era seduta sul letto. Aveva sulle labbra il sorriso rigido di un cadavere deciso a essere felice.

Non erano certo le condizioni ideali per fare l’amore, ma ci mettemmo all’opera, con lentezza, esitazione, coraggio. Cominciò ad andare un po’ meglio, poi molto meglio; poi diedi a Jan un bacio extra-speciale, e lei lo ricambiò con un altro in stile raccomandata espresso con ricevuta di ritorno, e le cose si misero sull’ottimo. Le dissi: — Tu sei una ragazzina molto sporcacciona, e io lo dirò a tua madre.