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— Fai pure. Non ti crederà mai.

Le regalai un bacio lungo, intenso, che Jan ricambiò. Poi mi sollevai su un gomito e accesi la luce. Jan mi fissò esterrefatta. — Jan?

— , per amor del cielo!

Spensi la luce, la riaccesi immediatamente. — Dove sei nata?

— Cosa?

— Dove sei…

— Kankakee, Illinois! Mio Dio!

Tesi la mano verso l’interruttore, mi fermai. — Qual è il cognome da ragazza di tua madre?

— Sellers!

Spensi la luce. Jan mi si avvicinò nel buio. Appoggiandole le labbra all’orecchio, mormorai: — Qual è il tuo numero di assistenza sanitaria?

Lei rispose dolcemente: — 481-03-2660.

— Amore — dissi; e finalmente Jan e io facemmo la pace sul serio.

Il venerdì arrivò e finalmente passò, e adesso avevo davanti tre lunghe settimane di ferie. Non avevamo intenzione di combinare molto, però era sempre una vacanza, e così tornai a casa pronto a celebrare: saremmo usciti a cena con Fritz e Anita Kahker.

Arrivai a casa, e Anita aveva telefonato nel pomeriggio. Si era presa l’influenza; bisognava rimandare la cena. Non volevo accettare l’idea, non volevo restare chiuso nel nostro appartamento un’altra sera; volevo fare qualcosa per celebrare. Non sapevo cosa. E alla fine andammo al cinema.

Non c’era niente di interessante da vedere. Lessi ogni singolo titolo sulle pagine rosa del Chronicle della domenica, le pagine degli spettacoli che conserviamo per avere il quadro generale della settimana, e nell’intera città o nei dintorni non c’era un solo film degno di essere visto, ma uscimmo lo stesso. Andammo a vedere un western del quale non avevo mai sentito parlare, cosa rara per me, al Metro di Union Street, e fu un enorme errore.

Comperai il popcorn, per festeggiare sul serio, ma Jan non ne voleva, e ci guardammo il maledetto film, un Technicolor a grande schermo. Tentai di interessarmi per lo meno al paesaggio, che era molto spettacolare. La colonna sonora si gonfiava in frequenti crescendo e poi piombava in drammatici silenzi. Il vento ululava nei canyon, i proiettili fischiavano e facevano schioccare l’aria in strade polverose, gli zoccoli battevano il terreno, le ruote dei carri cigolavano; e persone che vivevano nel miUeottocentosettanta o giù di lì, anticipando con grande sagacia l’idioma dei nostri giorni, dicevano cose come: — Ma tu crederesti a duecento indiani?

Cominciai a richiamare alla memoria i nomi degli interpreti secondari, i titoli degli altri film nei quali li avevo già visti; nessun film è uno spreco totale di tempo, per me. Ma quando lanciai un’occhiata a Jan a metà della proiezione, lei dormiva, col mento abbassato sul petto. Sapevo che non avrei dovuto trascinarla lì, e se fosse stata sveglia le avrei proposto di uscire. Ma cominciavo a nutrire un vago interesse per gli sviluppi della trama, e lei dormiva tranquilla, e così restammo. Più tardi, quando vidi che si era svegliata, mi girai per chiederle se volesse andarsene, ma adesso sembrava che il film le piacesse. Sorrideva a bocca socchiusa, ascoltava attentamente, e così restammo sino alla fine.

Le luci si accesero, lo scarso pubblico si alzò per uscire, e lei si girò verso me. — Che meraviglia! — disse, e io sorrisi al suo sarcasmo.

— Sì, grande. — Aspettai che Jan si alzasse, ma lei continuava a fissare lo schermo bianco.

— Quei paesaggi! — disse, e io mi resi conto che c’era una nota eccitata nella sua voce. La gente che avanzava lentamente tra le poltrone della nostra fila si voltò a guardarci. — I costumi! — disse lei, continuando a fissare lo schermo. — E il colore! — Si girò a guardarmi. — Nickie, bastardo, non mi hai detto che i film sono a colori! E che lo schermo è così grande! — Si chinò verso me, a occhi sgranati. Gli altri spettatori sorridevano apertamente, e la sua voce si abbassò a un sussurro. — E che parlano. Oh, Nickie, sono tornata a dare un’ultima occhiata al mondo, ed è una fortuna che lo abbia fatto. — La sua voce si alzò di nuovo, eccitata, esuberante. — Ma immagina! Puoi davvero sentire quello che dicono! Ragazzi! Ragazzi, ragazzi, RAGAZZI!

Sbatté le palpebre e diede un’occhiata allo scherma. — Oh. Il film è finito. — Si alzò di fretta, si girò a raccogliere la giacca. — Mi spiace. Penso di essermi addormentata. — Infilando il braccio nella manica della giacca mentre ci avviavamo tra le poltrone, Jan chiese sottovoce: — Era atroce, eh? Ma sai una cosa? — Mi prese sottobraccio e puntò verso l’uscita. — Sento dentro lo stesso tipo di calore e piacere che a volte provo dopo avere visto un film meraviglioso.

6

Quel mattino c’erano due motivi per alzarsi tardi: non solo era sabato; era anche il mio primo giorno di ferie, e io feci del mio meglio. A occhi ancora chiusi, restai sdraiato a raccontarmi che avevo sonno e mi sarei subito rimesso a dormire, ma dietro le palpebre ero perfettamente sveglio. Perché sapevo.

Mi resi conto che non c’erano suoni in camera da letto; nessun movimento, nessuna presenza al mio fianco, e i miei occhi si aprirono di scatto. La testa si girò a guardare il lato del letto di Jan, vuoto, con le lenzuola scostate. Poi mi rizzai a sedere, e guardai sul pavimento. Da per tutto erano sparsi brandelli di stoffa dagli orli sfilacciati: il vestito nero di Jan, il suo abito migliore, ridotto a decine di frammenti.

Vestendomi il più in fretta possibile, dissi: — Porca miseria. Porcaccia miseria! — ma udii la falsa veemenza della mia voce, e per un istante mi immobilizzai. Poi annuii, e finalmente lo ammisi con me stesso: Marion mi era mancata. Mi era mancata per tutta la settimana. Era una cosa incontrollabile.

Dirò questo a mia difesa. Afferrando la prima camicia che trovai, una camicia bianca, e allacciando solo un bottone sì e uno no; acchiappando un paio di calzoni marroni; infilando i piedi nudi in un paio di mocassini: facendo tutto questo, ebbi il buon gusto di non cercare di dare la colpa a Jan. A quanto sembrava, occorreva qualcun altro, una donna scapestrata ed esuberante come Marion, per portare a galla quello che chiaramente non era il mio vero io, ma un altro uomo stramaledettamente più capace di divertirsi. Non mi piaceva l’idea, non mi piacevano le sue implicazioni, non volevo pensarci; mi rendeva triste; ed era quella la sensazione che volevo provare pensando a Jan.

La casa era muta come nessuna casa lo è quando qualcuno è presente. Ma mentre mi allacciavo la cintura, sentii aprirsi la porta d’ingresso a pianterreno, sentii i suoi passi salire la scala, e uscii sul pianerottolo.

Una valchiria bionda, coi calzoni neri e il maglione a collo alto di Jan, stava salendo. Alzò la testa, mi guardò, sorrise, e batté una mano sui capelli. — Falsi. E da due soldi. Però almeno non sono color topo. Ho comperato la parrucca al salone di bellezza di Haight Street. Jan ha il conto aperto. Spero non ti dispiaccia. — Mi arrivò a fianco. — Dammi il benvenuto, Nickie. — Mi baciò sulla fronte, mi girò attorno ed entrò in soggiorno.

— Non dovevi tornare! — La seguii all’interno. — Avevi detto che non saresti tornata!

Lei si voltò. La sua espressione si fece dura. — E piantala! Il tavolo delle promesse ha chiuso. Adesso sono a colori! Su uno schermo gigante. E c’è… — Si interruppe, poi sorrise. — Ehi, l’epoca del muto è finita! Ehi, Nick, adesso parlano! — Si girò a guardare la parete sopra il divano, poi si avviò in quella direzione, leggendo ad alta voce. — Marion Marsh ha vissuto qui. 14 giugno 1926. — Si voltò a fissarmi, annuì. — Era il giorno in cui avrei dovuto andare a Hollywood. Con Nick Cheyney. — Puntò di nuovo gli occhi sulla parete, annuendo vigorosamente fra sé e sé. — Avevo davanti una carriera. Una grande carriera. Grande quanto quella di Joan Crawford. — Assorta nella propria visione, distolse lo sguardo. — È così che doveva essere — disse in tono veemente, annuendo di nuovo. Poi, più pacata: — Ed è così che sarà. — Guardò me. — Avrò la mia carriera. — All’improvviso, sorrise. — A colori, e parlata.