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Io raggiunsi il sedile del bovindo, le indicai il divano, e dopo un attimo lei si accomodò. Sul sedile, mi protesi in avanti, coi gomiti sulle ginocchia, e intrecciai le mani. — Stai a sentire. Tu hai agito d’impulso per tutta la vita, e cos’è successo? Alla fine ti sei ammazzata. Be’, niente è cambiato. La televisione trasmette il tuo vecchio film a più di mezzo secolo di distanza, tu torni a vederlo, e agendo d’impulso mi seduci solo perché assomiglio alla tua vecchia fiamma. Ma questo serve soltanto a provocare guai, e in ogni caso tu scopri che dai tuoi tempi è cambiato tutto. Lo puoi vedere! Sai che non puoi farci niente! Però dai un’occhiata a uno schifoso film con attori che parlano e pessimi colori, e wham!, torni un’altra volta per riprendere la tua vecchia carriera, senza riflettere un secondo su come potrai riuscire a farlo. Ma tu non pensi mai, per la miseria?

L’avevo punta sul vivo; lo vedevo benissimo. Non aveva una risposta, e per un momento o due, cupa in volto, restò zitta. Poi, l’unica cosa che riuscì a dire fu: — Okay, ci vediamo.

— Spiegami come faresti.

Di nuovo, dovette andare in cerca di una risposta; poi, in tono di sfida, disse: — Avevo amici a Hollywood.

— Nel 1926, Marion! Non ci sono più. Sono morti.

— Balle! Le persone che conoscevo io non erano star. Erano giovani! Come me. — Rifletté un istante. — Come il trovarobe di Ragazze focose, Hugo Dahl! Aveva solo diciassette anni. Terzo assistente trovarobe o qualcosa del genere. — Saltò su e corse alla libreria. Tengo sugli scaffali del soggiorno qualche elenco telefonico di altre città che ho rubato negli hoteclass="underline" un elenco di Manhattan vecchio di due anni, uno di Portland, Oregon, i tre elenchi principali di Los Angeles, un altro di Reno. Marion prese quello che sul dorso aveva stampato BEVERLY HILLS, e in piedi davanti alla libreria sfogliò le pagine in cerca della D. Il suo indice scese lungo una colonna, tornò indietro, si fermò, poi Marion mi guardò trionfante.

— Ed è ancora vivo. Lui mi aiuterà — disse soddisfatta. Chiuse l’elenco, lo rimise al suo posto. — Aveva una cotta per me.

— Gesù, Marion, adesso non ha più diciassette anni. Ne ha più di settanta! — dissi, implorante. — Sarà in pensione. Avrà lasciato il cinema chissà da quanto.

— Forse. E forse no.

— Okay, la cosa non ha importanza, perché senti… Al massimo sei riuscita a possedere Jan per qualche ora. Ti costa fatica, giusto? Energia metapsichica o come diavolo vuoi chiamarla. — Lei non rispose. Si limitò a riprendere l’espressione cupa. — E dopo un po’ tu resti a secco, no? A quel punto devi mollare, e Jan torna. Giusto?

— Forse.

— Forse un corno. Tu non arriveresti nemmeno a Hollywood. Jan riprenderebbe il controllo di sé e tornerebbe a casa. E ammesso che tu ci arrivassi, lei potrebbe fare diecimila cose per rovinare la tua seconda carriera ancora prima che iniziasse.

Marion restò a fissare il pavimento per una decina buona di secondi, poi rialzò la testa. — Dovrebbe lasciarmi fare! — sbottò.

— Lasciarti fare? Regalare una… una fetta della sua vita? A te? Perché diavolo dovrebbe?

Marion borbottò qualcosa, e rifiutò di guardarmi.

— Come?

— Ho detto che non parlavo di sempre!

— Oh. E che quantità di tempo avresti in mente?

— Non so. Esattamente. — Mi guardò, piegò la testa di lato, come qualcuno che stesse riflettendo su un’offerta. — Qualche anno, magari?

Risi, e lei perse tutta la sua sicurezza.

— Va bene. Un anno, Cristo santo! — Saltò su dal divano, intrecciò nervosamente le braccia sul petto, strinse i gomiti con le mani come avesse freddo. E con la parrucca bionda, per quanto artificiale apparisse, coi calzoni neri e il maglione che Jan non portava quasi mai, e con l’espressione decisa che aveva in volto quando cominciò a passeggiare avanti e indietro in soggiorno, non somigliava affatto a Jan. — Non so quanto tempo ci vorrà! — disse. — E poi cosa diavolo importa? Lei cosa fa della sua vita meschina e schifosa? Niente! Buonanotte. Gioca addirittura a bridge!

Scossi la testa. — Gesù… Tu sei completamente spietata, vero? Completamente.

— Tu non conosci i tuoi polli! — Mi scoccò un’occhiata sprezzante. — Non sono più spietata di quanto lo sarebbe chiunque altro. Chiunque provasse le mie stesse sensazioni. — Si piazzò davanti a me, chinandosi bellicosamente in avanti. — È questo che tu non capisci. Non sai cosa provo. Ti preoccupi per Jan. Ti preoccupi per te. Pensa a me! — Mi fissò per un altro istante, poi girò sui tacchi, ricominciò a camminare. — Ho perso tutto — mormorò, a se stessa quanto a me. — Il massimo che chiunque possa perdere. La maggior parte di una vita che sarebbe stata meravigliosa. — Si voltò di nuovo verso me, adesso implorante. — Ti sto chiedendo di farmi un regalo. Di restituirmi solo una piccola parte di ciò che ho perso. Convincila a farlo, Nickie!

Dopo un momento (che altro potevo fare?) scossi la testa in un cenno di diniego, e lei si voltò di scatto. Restai a guardarla percorrere a passi lenti la stanza; toccare soprappensiero un paralume, tastare la stoffa fra pollice e indice; raccogliere un posacenere, dare un’occhiata alla scritta sul fondo, rimetterlo giù; fermarsi a guardare una fotografia; ripartire. — Che gusto schifoso — borbottò a un certo punto. — Tutto così monotono. Ha paura dei colori.

Uscì in corridoio e tornò. Andò a una finestra, scrutò la strada sotto, poi se ne staccò. Una passeggiatina nervosa, dissi a me stesso, ma mi resi conto che era solo una frase fatta, e che non era vera; Marion era piuttosto calma. Allo zoo ho visto una tigre percorrere all’infinito il perimetro della sua gabbia, con gli occhi che non vedevano nemmeno più la folla di curiosi continuamente diversi. E mi sono reso conto che non era nervosa, ma dotata di una pazienza infinita. Non sapeva cosa stesse aspettando. Ma quando finalmente fosse successo, l’avrebbe riconosciuto immediatamente: la serratura lasciata aperta un giorno, per sbaglio; l’inferriata gradualmente erosa da una ruggine di cui nessuno si era mai accorto.

Marion stava semplicemente passeggiando per casa in attesa di ciò che sarebbe accaduto. Avevamo detto tutto quello che c’era da dire. La guardai; guardai il viso di mia moglie sotto l’assurda parrucca bionda, e però non era il viso di mia moglie. Non era di Jan, ma di Marion Marsh, la donna che avrebbe potuto diventare una star del muto. E aveva vissuto quel periodo! Era realmente stata a Hollywood nei remoti, quasi mitici giorni dei film muti. Le chiesi: — Marion, hai mai visto qualche star?

Lei annuì. — Lon Chaney, una volta.

— Non stai scherzando? Dove?

— In una strada di uno studio. All’ora di pranzo. Stavo andando a comperare un cestino alla mensa, e ho svoltato in un vicolo tra due edifici. — Si fermò davanti a me. Io accavallai le gambe, la fissai, rimasi in ascolto. — E lui spunta dietro l’angolo. Camminava diritto verso me. Stavano girando un film. Era truccato e aveva un aspetto assolutamente orribile. Aveva una cicatrice sul sopracciglio sinistro, e un occhio completamente bianco.