Le dissi immediatamente: — Senti, siamo soltanto andati al cinema!
Lei annuì, premette l’indice sulla fronte. — Lo so. Quando vedo un film di giorno, mi viene sempre questa leggera emicrania. E poi è talmente ridicolo che so che è vero. — Una smorfia: la sua mano sulla fronte aveva incontrato qualcosa. La mano salì, tastò, poi afferrò la parrucca bionda. Jan se la strappò dalla testa e restò a fissarla. — Questa che diavolo è?
— Andiamo in casa. — Mi chinai in avanti ad aprirle la portiera. — Ho un sacco di cose da raccontarti.
7
Portammo Al a fare una passeggiata. Prima Jan si cambiò; non le piacevano i calzoni e il maglione nero. Entrando in camera da letto, si fermò di botto, passò gli occhi sui brandelli di stoffa nera sparsi sul pavimento, e mi sorprese. — Forse ha ragione lei — mormorò, e si mise l’abito arancio, il più sgargiante che avesse.
Accompagnammo Al al campo giochi, a tre isolati da casa. È un posto che gli piace perché in genere ci sono bambini che gli fanno i complimenti, giocano con lui, e a volte gli danno le caramelle. Però quel giorno non c’era anima viva, così Al si arrangiò al meglio possibile: contò le altalene, gli scivoli, e l’unico, solitario albero. Sedemmo sull’orlo della grande buca di sabbia per i bambini più piccoli, mentre Al scorrazzava in giro, e io parlai con Jan.
In maniera molto esplicita, le dissi cosa volesse Marion e cosa mi era accaduto all’Olympic. Lei ascoltò con tanta attenzione da restare praticamente immobile. Poi, per mezzo minuto buono, rimase muta. — Tu lo faresti? — esplose all’improvviso, quasi furibonda. — Tu rinunceresti a una parte della tua vita per, diciamo, Valentino?
— Be’… Per Valentino non so. Forse per Cary Grant.
— Grant non ne ha bisogno, per amor del cielo! Nick, io so cosa prova Marion. L’ho scoperto come lo hai scoperto tu, con piccoli guizzi qua e là di ritorno di coscienza. Non avevo mai immaginato che un essere umano potesse desiderare qualcosa con tanta forza, eppure… Sai una cosa? A volte quasi la invidio. Vorrei essere io a desiderare qualcosa con quella intensità. Capisci cosa voglio dire?
— Sì. Quando mio padre era un giovanotto che aveva appena finito la scuola, voleva un lavoro. Lo sai perché? Per «poter avere una vita costruttiva». Ne trovò uno qui a San Francisco, da un distributore all’ingrosso di generi alimentari. Lavorava lunghe ore in un magazzino, a caricare camion. Un lavoro pesantissimo, e pagato pochi soldi. Ma a lui andava bene. Perché gli offriva l’occasione di «dimostrare di che stoffa era fatto». Be’, io sono un po’ più furbo. Chi crede in cose del genere, al giorno d’oggi? Nessuno, e abbiamo ragione. Lo stavano solo sfruttando. Però il punto è che io quasi invidio le convinzioni che un tempo la gente aveva, false o no che fossero. Perché non ho niente che possa prendere il posto di quelle convinzioni. E non lo hai nemmeno tu. Quindi sì, capisco quello che vuoi dire.
— Dimmi cosa fare, Nick! E lo farò. Se tu dici che devo, lo farò! Forse la mia piccola stupida vita non è importante, non con…
— Ehi, non dire questo! — Le misi un braccio attorno alle spalle, le strinsi un ginocchio. — Che idea sarebbe, una piccola stupida vita? Non è affatto…
— Oh, sì che lo è — ribatté lei, calma. — È una vita da niente. Mi sembra di avere concluso qualcosa di serio se provo una ricetta nuova e a te piace. Oppure se arredo una stanza come mi consiglia una rivista. O se riesco ad arrivare fino in fondo a un libro pesante.
Parlai, discussi, cercai di consolarla, e lei annuì e finse di sentirsi consolata. Chiamammo Al, lo mettemmo al guinzaglio e tornammo verso casa. Era ancora giorno, ma la nebbia del tardo pomeriggio aveva imbiancato il cielo, e all’improvviso il clima era gelido.
— Dimmi cosa fare, Nick — ripeté Jan mentre camminavamo, ma io scossi la testa.
— No. Devi decidere tu.
Qualche altro passo, e lei disse: — Va bene. Però dimmi cosa faresti tu. Questo me lo puoi dire.
Mi sembrava di pensare in maniera onesta. E credevo che se fossi stato al posto suo, lo avrei fatto.
Così annuii e risposi: — Sì. Penso che lo farei.
— Allora lo farò. Le darò… — Jan esitò, poi concluse quasi con rabbia: — Un paio di settimane, tutto qui. Per cominciare. Poi vedremo come regolarci. Nick, non è onesto?
— Onestissimo. Senti, concedile due settimane piene, e se non succede niente, chiusa lì. Torneremo a casa nella terza settimana delle mie ferie. Ce la spasseremo.
— Oh. Vai anche tu a Hollywood?
Mi sentii arrossire. Non mi era nemmeno venuto in mente di non partire. — Be’, sì. Non penserai che possa… lasciarti là da sola? Per una parte del tempo, ci sarai tu. E sarai sola, se non ci sono anch’io.
— Va bene. Però a volte sono capace di scacciarla. Ho imparato la tecnica, e l’ho già fatto. È un po’ come una lotta libera, e certe volte sono riuscita a… sbatterla fuori. Lei lo sa. Quindi dille che io dovrò tornare tutte le sere, appena lei sarà rientrata all’hotel! E per tutta la notte, ogni notte. Se no salto fuori di colpo nel bel mezzo della sua rentrée e le taglio le gambe.
— Una buona idea. Maledettamente buona.
A casa demmo da mangiare ad Al, poi uscimmo a cena. Nessuno dei due aveva voglia di restare in casa. Io ero depresso; non sapevo di preciso perché, e pensavo potesse esserlo anche Jan. Ci avviammo verso la Haight e un ristorantino che io trovo delizioso perché è tanto economico: “Il nostro vomitorio di quartiere”, come mi è stato proibito di chiamarlo. E camminando, una storia vera che avevo letto tempo addietro mi si affacciò alla mente.
Un uomo era stato assassinato, senza motivi apparenti, nel suo appartamento. In casa erano rimasti soldi, gioielli, parecchi oggetti di valore, compresa una collezione di francobolli. Sembrava non mancasse nulla. Un mistero. Uno dei detective, per puro caso, era un collezionista di francobolli. Controllò gli album del morto e trovò una pagina di francobolli rari, le prime emissioni delle Hawaii; c’era tutto, tranne il pezzo da due cent. E lui sapeva ciò che gli altri poliziotti non sapevano: quello era il più raro degli esemplari hawaiani. Passò in rassegna gli amici del morto finché non individuò un altro collezionista di francobolli. Poi fece conoscenza con l’uomo. Diventarono amici. E alla fine, una sera, l’uomo mostrò al detective il suo orgoglio e la sua gioia, una collezione completa dei primi francobolli hawaiani. Dove aveva trovato il pezzo da due cent? Non era in grado di dirlo. Venne arrestato, accusato d’omicidio, e continuò a non saper spiegare. Non poteva spiegare. Venne processato, condannato, e confessò: l’amico si era rifiutato di vendergli quel francobollo, l’unico che gli mancasse per completare la collezione. Così lo aveva ucciso e derubato. Aveva commesso un omicidio per un vecchio francobollo da due cent.
Mentre camminavo con Jan in direzione di Haight Street, mi dissi che una giuria di dodici collezionisti di francobolli avrebbe assolto l’assassino, ma il pensiero non mi fu d’aiuto. Perché non avevo raccontato a Jan dell’uomo di Hollywood che poteva possedere una collezione da capogiro di film incredibilmente rari? Perché? Ero stato davvero onesto nello spingerla ad accettare la volontà di Marion, in modo che anch’io potessi avere la mia occasione? Stavo vendendo mia moglie (ombre dello schiavismo sudista!) solo per la vaga possibilità di mettere le mani su antichi rulli di pellicola cinematografica? “Mio Dio! pensai. Sto vivendo la sceneggiatura di un film muto! Il film che io voglio è Greed! Avidità!”