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— Va bene.

Sollevata, Marion guardò la sveglia. — È troppo presto per partire. Non sarà ancora arrivato. Perché non…

— No.

— Potremmo almeno pomiciare un po’. Porta fortuna.

— Porta sfortuna. — Rotolai all’altro lato del letto, mi sedetti, presi l’elenco telefonico, cercai alla B, e trovai “Bollinghurst, Theo N., 1101 Keever Street.” Guardai Marion e sorrisi. — URRa’ per HOLLywood! — Mi misi a cantare. Saltai a terra e mi feci una doccia, continuando a cantare.

Sul taxi, diretti a est in Wilshire Boulevard, guardai fuori dal finestrino. Non sapevo molto di quella città ed ero curioso. Ma ogni isolato che superavamo, fermandoci spesso ai semafori, sembrava identico al precedente: edifici generalmente bianchi, nuovi o dall’aria nuova, e di altezza piuttosto uniforme, per cui tendevano a confondersi l’uno con l’altro. Però notai che le singole architetture erano spesso notevoli, talora eccentriche, addirittura bizzarre. Uno qualunque degli edifici che incontravamo sarebbe stato memorabile da qualsiasi altra parte; un monumento cittadino. Ma lì, così tante costruzioni tentavano di apparire uniche che l’effetto cumulativo era una monotonia globale. Erano in pietra, ma sembrava difficile credere che fossero realmente state progettate per durare nei secoli. E nella inquietante luce solare di Los Angeles, una luce slavata che filtrava a fatica dalla foschia di perpetuo smog, quegli isolati monotoni parevano privi di sostanza, di vita, e di significato. Esistono nonlibri e noncelebrità, persone la cui unica fama riposa nel fatto che il loro nome, chissà perché, è conosciuto. A me sembrava di trovarmi in un nonposto, e lo dissi a Marion.

— Però un tempo era diverso. Questo era un posto meraviglioso. Una città, una vera città. — Guardò fuori dal finestrino, poi scosse la testa e si rannicchiò sul sedile, come per isolarsi dal paesaggio che avevamo attorno. — Ma adesso non mi piace. Non potrebbe mai piacermi. Non vedo come potrebbe piacere a qualcuno. — All’improvviso, si protese in avanti a parlare all’autista. — Ci riporti all’hotel!

— Okay. — Il taxista scrollò le spalle, controllò nello specchietto retrovisore che non ci fossero in giro poliziotti, e rallentò, in attesa del momento buono per immettersi nel traffico dalla direzione opposta. Poi eseguì un’inversione a U, molto veloce e molto illegale.

Restai in attesa di una spiegazione, e dopo un secondo o due lei alzò entrambe le mani e si tolse la parrucca.

— Jan?

Lei annuì, acida. — Non so se voglio andare avanti con questa cosa, Nick, adesso che siamo qui. Questo posto non mi piace! Cosa ci facciamo qui? — Sbatté di scatto le palpebre, sussultò, e si chinò in avanti. — Ci porti a Gower Street! — disse, e rimise in testa la parrucca.

— Mio Dio. — Mi afflosciai sul sedile e mi voltai verso il finestrino, dissociandomi dalla donna che avevo in quel momento al mio fianco.

— Signora, a me non importa. — L’autista si girò a sorridere con calma forzata. — Se vuole, può andare avanti tutto il giorno, avanti e indietro, purché mi paghi la corsa. Ma se mi beccano per questa inversione, alla multa ci pensa lei! — Direttamente di fronte all’hotel, eseguì una nuova inversione a U e ripartì in direzione est.

— Torniamo all’hotel! — Lei si tolse la parrucca.

— No! — L’autista frenò di colpo, accostò al marciapiede e si fermò. — Non lo faccio! Niente potrebbe costringermi a farlo! Trovatevi un altro ta…

— Calma — intervenni, rassicurante. — Aspetti un secondo. Ci faremo perdonare con la mancia. — Mormorando sottovoce, parlai con Jan. Le ricordai che aveva promesso. La sollecitai ad aspettare di vedere cosa sarebbe successo, e alla fine lei si arrese. — Andiamo — dissi all’autista. — North Gower Street, e questa volta non cambieremo idea.

Restai deluso, enormemente, dall’aspetto esterno dello studio. Non so cosa mi aspettassi, però pensavo di vedere come minimo qualcosa di sfavillante. Invece quella era solo una parete a stucco bianco, molto alta, lunga un intero isolato, quasi spoglia, a lato del marciapiede; di fronte, un parcheggio pubblico scalcagnato, pieno di buche, chiuso da una palizzata bianca in rovina e lastricato di cartacce che nessuno avrebbe mai raccolto. Sulle pareti esterne dello studio, qualche cartellone cinematografico; per il resto, poteva benissimo essere un magazzino. E la porta, l’ingresso principale a uno studio famoso nel mondo intero, era una comune porta a livello della strada, con le maniglie che avevano perso la cromatura, i vetri un po’ sporchi. Non mi avrebbe sorpreso trovare all’interno uno studio dentistico a prezzi stracciati.

Quello che trovammo fu un cubicolo grande abbastanza da contenere noi due e una piccola scrivania che pareva uscita dai saldi di un mobilificio per poveracci. Alle pareti di compensato era appesa qualche fotografia sbiadita di attori cinematografici e star televisive; e dietro la scrivania, un uomo di mezza età dalla faccia simpatica, in un’uniforme vagamente da poliziotto, alzò la testa da una copia di The Hollywood Reporter. — Posso esservi d’aiuto?

Se mi ero preoccupato per le possibili reazioni di Marion, smisi di nutrire timori quando vidi spuntarle il sorriso sulle labbra. E gli occhi dell’uomo mi dissero che il sorriso non era passato inosservato. — Sì, grazie, se non le spiace — disse Marion, guardando l’uomo con quello che sembrava sincero interesse, come se avesse voglia di trascorrere almeno un’ora a chiacchierare con lui.

— Vorrei vedere il signor Hugo Dahl.

— Ha un appuntamento? — L’uomo cominciò ad annuire automaticamente. Era chiaro che gli sarebbe piaciuto evocare dal nulla un appuntamento che forse non esisteva.

— No, però sono una vecchia amica. Se gli fa sapere che c’è Marion Marsh, credo che potrebbe vedermi.

L’uomo consultò un logoro elenco di numeri telefonici appiccicato alla sua scrivania con un nastro adesivo ingiallito, poi chiamò. — Reception. La signora Marion Marsh vorrebbe vedere il signor Dahl. — Ascoltò, poi restò in attesa, sorridendo a Marion. — Solo un secondo — disse nel ricevitore, poi chiese a Marion: — Ha detto Marion Marsh? — Lei annuì, gli scoccò un altro sorriso gigante, che lui ricambiò. — Bene — disse l’uomo nel ricevitore, poi riappese. — Scende subito.

Io non dissi niente. Marion aveva dimenticato che Hugo Dahl avrebbe visto la faccia di Jan? Aspettammo, facendo i pochi passi che la stanzetta permetteva, guardando gli ingrandimenti fotografici molto sgranati. Dopo un po’ sentii aprirsi la porta di un ascensore da qualche parte sulla sinistra dell’ingresso, e passi che si avvicinavano; poi arrivò un uomo alto, magro però con la pancia, sulla settantina. Indossava un abito blu scuro e un maglione. Era calvo, con frange di capelli e basette grigie. Aveva un viso rugoso, cadente, eternamente stanco. Ma i suoi occhi erano svegli e cauti. — Lei è… Marion Marsh?

Lei scrutò l’uomo sulla mezza età avanzata, o sull’inizio della terza età, e per un attimo non rispose. Poi si esibì in un sorriso sfolgorante, e Dahl spalancò la bocca, sorpreso. — Sono la pronipote della Marion Marsh che lei conosceva. Ma forse non la ricorda?

Lui stava rispondendo al sorriso. Le rughe erano momentaneamente scomparse, e adesso si poteva immaginare come fosse stato il suo volto da giovane. — Nessuno ha mai dimenticato Marion Marsh. La ricordo dieci volte meglio delle persone con cui ho pranzato ieri. Lei è la sua pronipote? — chiese incredulo, e Marion annuì, senza smettere di sorridere. — Non le somiglia, a parte il sorriso. Il sorriso è lo stesso. Identico. Come mai porta il cognome Marsh?