— Mi hanno chiamata Marion in suo onore. E la ammiravo così tanto, aveva tanto talento, che ho preso Marsh come cognome d’arte. — Aggiunse timidamente: — Come cognome per la mia carriera cinematografica. O almeno lo spero.
Dahl sorrise. Un bel sorriso: ammiccante, ma dolce. — Ed è qui per questo. Marion le ha parlato di me, eh? È ancora… viva? Mi sembrava di avere sentito…
— Oh, sì! Vivissima! Ha avuto un brutto incidente. Anni fa. Ma si è ripresa. E ha parlato spesso di lei. — Marion esitò, in un modo molto convincente. — Forse non dovrei dirlo, però… Ho sempre avuto la sensazione che lei le piacesse. C’era qualcosa nella sua voce, tutte le volte che faceva il suo nome…
Lui rise. — Se non è vero, e non lo è, non voglio saperlo. Be’, stamattina sto facendo delle audizioni, e se la pronipote di Marion Marsh vuole essere della partita, prego. Mi segua. — Fece per avviarsi, si ricordò di me, e disse: — Viene anche lei?
— Oh, scusi! — disse Marion. — Sono così nervosa. Questo è un mio amico che… È un attore anche lui! Mi dà sostegno morale. Sono spaventata a morte.
— Okay. Venite tutt’e due. La farò preparare per l’audizione, Marion. — Uscimmo dalla stanzetta sulla destra. Marion si girò a sorridere alla guardia alla reception, poi imboccammo un corridoio costellato di porte e targhette con nomi in plastica bianca su fondo nero. Sbucammo in un vicolo o una strada, molto, molto stretta; superammo un vecchio edificio di legno a un piano, grigio, con finestre a doppi telai e un tetto ad assicelle. Dietro diverse delle finestre c’erano donne che battevano a macchina sotto brillanti luci fluorescenti.
Parecchio più avanti sulla strada si stendeva una fila di cupi edifici a mattoni, alti quattro o cinque piani; avevano pochissime finestre, e anche quelle poche sembravano disposte a casaccio, per cui era impossibile farsi un’idea esatta dei piani. Sui lati, scale antincendio sulle quali stavano accoccolate parecchie persone. Continuammo a camminare per almeno un isolato, costruzione dopo costruzione, e io fui orgoglioso di Marion (e anche un po’ sorpreso, lo ammetterò) quando lei si ricordò di me. — Dovrei andare a trovare anche qualcun altro — disse a Dahl. — Ted Bollinghurst. Lei lo ha mai conosciuto?
— Oh, sì, certo. Stavamo allo stesso studio. Poi lui ha traslocato. Alla United Artists, mi pare. Però ho continuato a incontrarlo per tutti gli anni Venti e Trenta. Hollywood era molto più piccola, all’epoca. Poi ho sentito dire che aveva lasciato il cinema e si era messo negli immobili, e per anni non ne ho più saputo nulla. Sa, qui se uno non è nel cinema non esiste. Ma molti anni più tardi ho letto di lui sul giornale, ed era ricco. Come tanta gente che si è messa a vendere case a Hollywood al momento giusto. Gesù, quando penso ai terreni che avrei potuto comperare. Nell’estate del 1928 ho acquistato una spider Dodge allo stesso identico prezzo di sei acri di terreno che non valevano un soldo e che oggi sono in pieno centro di Beverly Hills. Se avessi comperato quelli e me li fossi tenuti stretti, adesso sarei ricco, invece di essere costretto a… Oh, al diavolo. Bollinghurst e tanta altra gente lo hanno fatto, e io no. L’ultima volta che ne ho sentito parlare, negli anni Quaranta, aveva comperato Graustark.
— Comperato cosa? — chiesi.
— Graustark. La vecchia villa di Vilma Banky. Non ne ha mai sentito parlare? — Io scossi la testa. — Era come Pickfair, la casa di Doug Fairbanks e Mary Pickford. Un tempo, nel mondo civile tutti quanti sapevano di Pickfair e Graustark. Posti favolosi. Costruiti su otto o dieci acri di terreno. Un milione di stanze. Piscine. Campi da tennis. Scuderie. Garage pieni di Daimler, Duesenberg e Hispano-Suiza. Be’, Ted ha comperato Graustark. Perché era appartenuta a Vilma Banky, ne sono certo. Era proprio un patito di cinema. La villa era vuota da anni, ridotta in condizioni pietose. Un elefante bianco. Nemmeno il terreno in sé e per sé aveva un valore particolare, per Hollywood. Ma lui l’ha comperata, e ha ristrutturato tutto. E ci è andato a vivere. Per un po’ si è sentito parlare dei party che dava. C’era anche la sala da ballo. Io non ci sono mai andato, ma mi sono arrivate voci. Però sono anni che non sento parlare di party lì. Era molto più vecchio di tutti noi, e dubito sia ancora vivo. Non so nemmeno se Graustark esista ancora. Probabilmente adesso sarà un parcheggio.
— Dove si trovava? — domandai.
Lui rifletté un attimo. — Keever Street. Da qualche parte di Keever Street.
— Attorno al numero millecento?
— Più o meno. Perché?
— Semplice curiosità.
Davanti a noi, una doppia porta in acciaio verniciato di grigio era spalancata. Una donna magra, coi capelli neri, sulla quarantina, uscì e svoltò in strada. — Marie — chiamò Dahl. La donna si girò e restò ad aspettare. — Ne ho un’altra per te — disse Dahl, indicando Marion con un cenno della testa. — Me la puoi preparare? In fretta. Alle scartoffie pensiamo dopo. — La donna soppesò Marion con gli occhi, poi annuì. — Ma certo. — Gesticolò col mento in direzione di Marion. — Vieni.
Le due donne si avviarono, e Dahl mi indicò le porte grigie dell’edificio che sembrava un magazzino, ed entrammo. Non avevo niente di meglio da fare, ed ero curioso. L’interno era enorme: un gigantesco spazio aperto, col soffitto perso nel buio. Non vedevo molto. A parte qualche rara lampadina che illuminava pochissimo, e il bagliore rosso delle uscite di sicurezza, quasi l’intero locale era al buio. Di luminoso c’era solo un angolo molto lontano. Nelle tenebre intravedevo oggetti dal profilo indistinto e una grande, indefinibile impalcatura in legno.
Procedemmo verso l’unica zona illuminata dell’ampio spazio: un angolo con mattoni a vista. Un paio di potenti riflettori montati su supporti mobili fornivano tutta la luce necessaria. E sotto quella luce, una decina di persone (quasi tutti uomini, due o tre donne) chiacchieravano fra loro, stringendo in mano bicchieri da caffè di plastica. Uno, un giovanotto semi-calvo in calzoni e giacca blu, ci individuò e si incamminò verso noi. Reggeva in mano un porta-blocco. — Fred — disse Dahl, quando il tizio si fermò davanti a noi — c’è un altro candidato. Parlagli. — Ormai non si ricordava nemmeno più della mia esistenza. — Vedi se ha qualche specialità. Se ti sembra adatto, assumilo. — Si girò verso me e disse: — Fred è il capo dell’unità esterna. — Non sapevo cosa significasse. Continuammo a procedere verso il gruppo che stava sotto i riflettori.
— Nome? — chiese Fred, con la matita appoggiata sul porta-blocco. Eravamo al margine esterno del cerchio di luce, però io riuscivo a vedere otto o dieci nomi scritti a matita sul modulo fermato dalla molla del porta-blocco di Fred. Stavo per rispondergli che c’era stato un equivoco, ma rimasi orripilato; mi parve di essere sul punto di svenire. L’uomo davanti a me e l’edificio nel quale ci trovavamo avevano cominciato a sparire. Ero svenuto una volta al college, perché per fare economia avevo smesso di mangiare la colazione; lo svenimento era iniziato nello stesso modo, e in quel momento mi chiesi se avrei picchiato la testa sul pavimento. Però non caddi. Per quanto vista e udito stessero diventando sempre più fiochi, sentii la mia voce, lontana, rispondere; e il tono era calmo, sicuro di sé, e parecchio più profondo della mia voce normale.
— Rod. Rod Guglielmi.
— Rod per Rodney?
— No. Rodolfo.
— Qualche specialità?
— Tutto quello che volete. — La scena davanti a me, e le voci, cominciavano a svanire.
— Be’, a noi serve una controfigura, niente di più.
Un attimo di esitazione, poi la mia bocca pronunciò le parole. — Io posso farlo.