— Fare cosa?
— Tutto quello che volete. Guidare automobili da corsa. Camminare su un filo. Lanciarmi da un treno a un altro. Paracadu… — Il nulla. Nemmeno il buio; solo il puro, incolore nulla.
Spesso, svegliandosi, si riesce a capire per quanto tempo si sia dormito; nella stessa maniera, quella volta io riuscii a capire che non era trascorsa più di mezz’ora. Ma era come risvegliarsi da un innaturale sonno febbricitante per un momento o poco più di superchiarezza. Mi trovavo in uno spazio ristretto, un camerino con tavolo, specchio, una sedia, e ganci ai quali erano appesi i miei abiti. Ero in piedi, mi accorsi, con un piede sul pavimento, l’altro sulla sedia, e mi stavo guardando. La metà superiore del mio corpo, scopersi, indossava una camicia di nylon bianco, molto scollata, gonfia sul petto e nelle maniche. I calzoni erano alla cavallerizza. Portavo scarpe coi lacci intrecciati sulle caviglie, e attorno alla gamba posata sul pavimento avevo una fascia di pelle fermata da due fibbie d’ottone. Un’altra fibbia era nelle mie mani; a quanto sembrava, stavo per sistemarla sull’altra gamba. Poi, ancora la sensazione di svenimento, il mondo esterno che svaniva, il nulla che mi correva incontro.
Capii di nuovo che era passato altro tempo. Un’ora e mezzo, forse due ore. Semplicemente, riaprii gli occhi come dopo un sonno senza sogni, e vidi; ma non sapevo cosa vedessi. Era un pavimento, un pavimento enorme, sterminato, ma non di una stanza. Lo guardavo attraverso una foschia uniforme, perplesso dall’incrociarsi casuale di linee grigio-bianche, a volte rette, a volte curve, e dalla successione di mattonelle rosse e verdi grosse come un’unghia, in file parallele. Lontana, lontanissima, vicino all’orlo del pavimento, c’era una curva irregolare, più larga, grigio piombo; e mi resi conto che quello che vedevo era un fiume. E che le linee grigio-bianche erano strade, i quadrati verdi e rossi tetti, e che quell’enorme pavimento si stendeva sotto di me appena oltre l’orlo di una superficie coperta di stoffa sulla quale, appaiate, si trovavano le mie scarpe.
C’era anche un suono, percepii, un ruggito martellante, e una sensazione: ero raggelato dalla continua pressione dell’aria contro petto e costato. E adesso sentivo la stoffa della mia camicia sventolare nell’aria, battermi sulla pelle. Muovendo leggermente gli occhi, vidi una superficie verniciata sopra la mia testa, e intravidi un tirante metallico piegato ad angolo acuto.
Scacciai l’idea dalla mente per tutto il tempo possibile: l’idea che non stavo sognando, ma ero davvero accoccolato su un’ala di un vecchio biplano, centinaia di metri al di sopra di Los Angeles. La mia testa si girò un po’ di più. Vidi le nocche bianche del mio pugno sinistro strette attorno a un puntale, e (sulla mia sinistra, alle mie spalle) la testa del pilota, con casco e occhialoni. Mi si inaridì la gola, il mio intestino si raggrinzì. Sgranai gli occhi per lo shock. Per un altro momento, scrutai il vago, infinitamente lontano orizzonte, chilometri davanti a me e chilometri sotto di me; poi tutto tornò ad annebbiarsi, e questa volta capii che stavo veramente, realmente per svenire.
Ma prima che accadesse, ebbi di nuovo la sensazione di qualcuno che spingeva verso me, contro me, però senza esercitare una pressione fisica; e all’improvviso, ci trovammo a occupare lo stesso spazio, e Rodolfo Guglielmi era tornato. La curiosità, ovviamente, è sempre l’emozione più forte, e io riuscii a chiedermi dove avessi letto o sentito quel nome vagamente familiare. Poi ricordai. Sull’ala di quel primitivo aereo, con me c’era Rodolfo Valentino, scritturato con il suo vero nome come controfigura. Pur di tornare nel mondo del cinema, era pronto a fare anche quello.
Ma non voleva prendere il sopravvento completo su di me. Restammo lì, alti in cielo, immobili su un pezzo di stoffa verniciata… e dopo un po’ capii che lui aveva paura quanto me!
Mi lasciò! Diede un’occhiata all’orrore che si stendeva davanti e sotto noi, e mi abbandonò un’altra volta! Stringevo il montante con tanta forza che il mio braccio si stava addormentando. Guardai più avanti: il lungo, lungo muso dell’aereo dalla forma bizzarra; l’arrugginito tubo di scappamento su un lato della fusoliera; la vernice che si staccava attorno ai fori del tubo; il cerchio tremolante, inconsistente, trasparente dell’elica. E le mie ginocchia si squagliarono, le spalle si abbassarono, e io fui sul punto di cadere a corpo morto nello spazio.
Mi sia concesso dire, a eterno merito e gloria di Rodolfo Valentino, che tornò! Tornò. Assieme, facemmo una profonda, profonda inspirazione, poi lui si girò verso il pilota e si costrinse a sorridere. Un atto eroico. Valentino era un vero uomo. Ci aveva portati lassù, e ci avrebbe riportati giù. Con infinito sollievo mi lasciai invadere dal nulla.
Questa volta trascorsero solo pochi minuti, e di colpo, senza preavviso, rividi la grande pianura nebbiosa che era quasi tutta l’area di Los Angeles, da orizzonte a orizzonte; e l’altitudine era ancora maggiore.
Ma l’ala era scomparsa! Sentivo vicino il ronzio regolare, martellante, antico dell’unico motore, però l’aereo era svanito! Guardando in su (in su? Sì, in su!) vedevo le minuscole linee che erano strade e i puntolini che erano tetti. Avvertivo un dolore alla parte posteriore delle ginocchia (perché?), e il sangue si era congestionato in viso e sul collo. Poi capii: ero capovolto, e con la testa piegata all’indietro scrutavo, oltre il nulla, il pianeta che ruotava lontano sotto di me. Distolsi subito gli occhi, guardai giù (su?), e vidi la mia camicia bianca sventolare all’impazzata nell’aria, da metà del petto alla grande cintura di cuoio; vidi fino alle ginocchia le mie gambe inguainate nei calzoni alla cavallerizza, e nient’altro. Niente fasce, niente scarpe, soltanto l’ala dell’aereo coperta di stoffa. Udii la mia stessa gola emettere un suono strangolato perché (mio Dio!) penzolavo a testa in giù nell’aria con le ginocchia piegate attorno al pattino sotto la fusoliera dell’aereo.
La mia testa si girò di scatto per il terrore, e vidi la testa con casco e occhialoni guardarmi. Le labbra sorrisero, il pilota mi fece un cenno con la mano guantata, e io cominciai a perdere consapevolezza di me; e ne fui lieto, perché preferivo cadere in stato d’incoscienza e morire piuttosto che continuare, anche per un solo secondo, a vedere e capire l’orrore della mia situazione.
Era passato altro tempo, molto altro tempo, quando sentii tornare pensiero e coscienza, e questa volta li sentii tornare in maniera completa. Mi accorsi di provare una terribile stanchezza nel corpo come nella mente, e capii che Valentino se n’era andato in via definitiva. Non volevo, non potevo aprire gli occhi per la paura di vedere. Ma le mie orecchie funzionavano, e il suono del motore dell’aereo era scomparso. Mi resi conto di udire il mormorio di voci impegnate in normalissime conversazioni, e aprii gli occhi.
Mi trovavo in una stanza. No, era un cinematografo, anche se piuttosto strano. Lo schermo bianco davanti a me, la prima cosa che vidi, era in miniatura; al massimo due terzi delle dimensioni normali. E c’erano solo una mezza dozzina di file di poltrone, ciascuna composta di una decina di poltrone. Dieci o undici persone sedevano qua e là. Due file più avanti, sulla mia sinistra, Hugo Dahl era in compagnia di altri due uomini, compreso Fred dell’unità esterna. Appena dietro Dahl sedeva una ragazza con un portablocco in grembo; aveva un portamine con una piccola lampadina vicino alla punta, e la accese un paio di volte. Sparsi in giro, altri uomini e donne, forse attori. Qualcuno mi tirò una gomitata. Mi girai, e al mio fianco c’era Marion (capii che era lei dall’espressione). Doveva essere tornata all’hotel, perché indossava un vestito verde che a Jan non piaceva; non lo portava quasi mai, anche se su Marion stava benissimo. Abbassai gli occhi su di me. Anch’io avevo fatto un salto all’hotel. Portavo un altro vestito, camicia, cravatta. Marion disse: — Penso che stiano per cominciare, Rudy. Sono nervosissima.