Le sussurrai: — Non sono Rudy. Sono Nick.
— Be’, credimi, ne sono contenta. È un uomo impossibile! Non mi ero mai resa conto che per lui esistesse solo l’io, io, io, io. Non sono riuscita a dire una sola parola per l’intera cena!
— Marion, cosa succede? Che ore sono? Hai fatto il tuo provino? Dove stia…
— Oh, sì, stamattina. Hanno sviluppato la pellicola nel pomeriggio. Adesso vedremo i provini. Hugo ci ha invitati.
— Be’, a cosa servono? Per quale film?
— Non lo so. Nessuno lo ha detto. Ma credo…
Hugo Dahl si era girato sulla poltrona a guardarsi attorno. — Ci siamo tutti? — strillò, e, senza attendere risposta, puntò lo sguardo sulla cabina di proiezione. — Okay, Jerry. Andiamo.
Le luci si spensero immediatamente, e sullo schermo apparve un rettangolo di luce lampeggiante. Diventò bianco latte, e poi si materializzò in un lampo un numero 4 capovolto, poi lettere scritte a mano, a loro volta capovolte, e lo spezzone di un vecchio film. All’improvviso, sfuocato, sullo schermo apparve un uomo girato verso la macchina da presa, con qualcosa in mano. L’immagine si mise immediatamente a fuoco e svelò un giovanotto dai capelli lunghi, con baffi un po’ cascanti e una giacca di pelle a frange. Reggeva in mano una lavagnetta sulla quale, a gesso, era scritto HUNTLEY, e sotto CIAK 1, KAI MEISSNER. Nell’altra mano stringeva un’assicella bianca e nera fissata al fondo della lavagnetta. La sbatté contro la lavagnetta e uscì di scena.
La scena (il giovanotto l’aveva quasi completamente nascosta) era un’orchestra di quattro elementi, uomini in giacche a strisce rosse e bianche e cappelli di paglia. Il pianista, con le mani sopra la tastiera, guardò gli altri, poi attaccò a suonare; il trombonista alzò il suo strumento, e le destre degli altri due, suonatori di banjo accoccolati su alti sgabelli, cominciarono a muoversi talmente in fretta da diventare macchie indistinte. L’improvvisa eruzione di musica era un meraviglioso jazz vecchio stile dal ritmo veloce, pronunciato.
La macchina da presa indietreggiò e rivelò un angolo illuminato di palcoscenico, con un tendone di velluto bianco sul fondo. Una ragazza uscì dalle quinte. Indossava un abito rosso a frange lungo fino alle ginocchia; una fascia le cingeva la fronte e i capelli, tagliati corti. Con un sorriso professionale a noi del pubblico, cominciò a ballare. Un ballo veloce e perfettamente a tempo; un’approssimazione del charleston, mi resi conto. Ma i movimenti avevano qualcosa di artificiale, di meccanico, e io ebbi l’improvviso sospetto che la ragazza avesse bluffato, che avesse detto di conoscere quel ballo anche se non era vero. Magari si era fatta dare una lezione velocissima la sera prima del provino. L’esibizione durò forse una ventina di secondi; poi, con un sorrisone a un pubblico inesistente che esplose in un applauso registrato, la ragazza uscì di scena mentre i banjo emettevano un’ultima nota. Dalla strizzatina d’occhi molto poco convinta capii che si era resa conto di avere fatto un buco nell’acqua.
Non ci fu nessuna reazione dal pubblico reale. Marion si chinò verso me a mormorare: — Più che un charleston, sembrava una polka. — Senza il minimo intervallo dopo l’ultima nota, riapparve il giovanotto con la giacca a frange e la lavagnetta. Le due righe in basso erano state cancellate, e sotto HUNTLEY sempre scritto col gesso, lessi CIAK 2, JUNE VAN CLEE.
L’assicella di legno sbatté. Il giovanotto se ne andò, e ricomparve l’orchestrina. Le mani del pianista erano di nuovo sospese sopra la tastiera. La macchina da presa indietreggiò dopo l’uscita di scena del giovanotto, e la stessa musica riattaccò: estremamente ritmata, eseguita con grande sapienza. Mi sarebbe piaciuto restarla ad ascoltare per ore. Una seconda ragazza, più alta e magra della prima, ma vestita nello stesso modo, entrò dalle quinte.
Era molto meglio. Una tipa in gamba. Però, sul minuscolo palcoscenico, si stava semplicemente esibendo con estrema competenza professionale, e per soldi. Nonostante il sorriso, il suo era un ballo privo di gioia e d’ispirazione. Come la strizzatina d’occhio finale; e lo stesso accadde con le ragazze del terzo, quarto, e quinto ciak.
Sempre senza interruzioni nel filmato, riapparve la lavagnetta (CIAK 6, MARION MARSH), il giovanotto se ne andò, e le mani del pianista scesero sulla tastiera. L’esplosione di musica ricominciò, e Marion apparve sul palco in un corto abito rosso pomodoro, fascia sulla fronte, e (particolare diverso da tutte le altre) una cintura a perline che le cingeva la vita. Anche lei sorrise al pubblico immaginario dietro i riflettori, però in quel sorriso c’era tutta la sicurezza di qualcosa che lei sapeva di poter fare in maniera superba. Quel sorriso diceva che era soddisfatta di se stessa e felice, che amava il pubblico che stava per avere il piacere di godersi la sua esibizione. Per un attimo ricordai la minuscola figura in bianco e nero che avevo visto sullo schermo del mio televisore (tanto, tanto tempo fa, mi parve) in Ragazze focose. Era la stessa ragazza, adesso a dimensioni più grandi del naturale, a colori brillanti, e accompagnata da un vortice di musica, ma con l’identica magica presenza. Io sorridevo, rispondevo automaticamente alla sua allegra arroganza, e sapevo già (me lo diceva il brivido che correva su per la mia spina dorsale), che sarebbe stata bravissima.
Il suo corpo passò dal camminare al ballare senza il minimo sforzo, senza una pausa o una transizione, splendidamente libero. Marion non ascoltava la musica, non cercava di coordinare i propri movimenti col ritmo dell’orchestra: il suo corpo, semplicemente, fluì nella musica, si unì a quel jazz frenetico, felice, e ne diventò parte. Piedi e gomiti guizzavano con tanta naturalezza che il ritmo sembrò più lento di quanto fosse stato in altri ciak. E poi, all’unisono, le dita delle sue mani schioccarono, il corpo di Marion si abbandonò a se stesso, e il ballo prese fuoco. Le sue gambe si muovevano in una frenesia estatica ma perfettamente controllata. Il mento si sollevò lentamente, gli occhi si chiusero nel piacere dei sensi. Marion amava quello che stava facendo, si vedeva benissimo, si sentiva; ogni atomo del suo corpo eccitato ne godeva. Una danza selvaggia, frenetica, che terminò di colpo sull’ultima nota. Lei riaprì gli occhi, e quando ci sorrise e ci fece l’occhiolino, lo fece con tanta ilare sensualità che un uomo strillò, e tutti noi scoppiammo in un vero applauso.
Sullo schermo, il giovanotto si stava avvicinando alla macchina da presa con la lavagnetta per il settimo ciak, ma Hugo Dahl era balzato in piedi. — Lo sapevo! Lo sapevo! L’ho detto! Jerry, hai preparato l’altro materiale? Te lo avevo chiesto!
— Sì! L’ho pronto sul secondo proiettore — rispose una voce attutita dalla cabina di proiezione.
— Allora fammelo vedere, Cristo santo! Ci siamo! È lei! — Sullo schermo, l’orchestrina aveva ripreso a suonare; ma di colpo immagini e musica si interruppero. Il ristretto pubblico mormorò, e nel buio Dahl urlò: — Marion, baby, tua nonna non ha mai fatto di meglio! Tu hai un futuro in questo schifoso mestiere, te lo posso promettere!
La mano di Marion, sul bracciolo, aveva afferrato il mio braccio. Stringeva così forte che io stavo perdendo la sensibilità alle dita della mano. Lo schermo si illuminò, mostrò un veloce conto alla rovescia, e in quella luce mi voltai a guardare Marion. La sinistra mi stringeva il braccio, la destra era premuta sul petto; e lei fissava lo schermo, a bocca socchiusa per lo stupefatto, incredulo, sfolgorante sollievo. 7, 6, 5, 4, 3… Credevo che avremmo rivisto Marion, e invece all’improvviso una bottiglia gigantesca riempì lo schermo. L’etichetta era a stento visibile, ma una profonda voce maschile provvide a leggerla: — Ketchup Huntley Ricetta Classica! — Il tappo si svitò da solo, volò via, e la bottiglia si inclinò in avanti. La voce continuò: — Nel nuovo formato con la grande grandissima bocca! — Alla parola “bocca”, sopra la bottiglia apparve una nuvola da fumetto; e mentre all’interno della nuvola si formavano parole, una voce nasale, stridula, comica, la voce della bottiglia di ketchup, le pronunciò: — Però io ho ancora il mio vecchio sapore… Con tutta la tipica bontà di Huntley! — In quel momento, sullo schermo si materializzò di nuovo il sesto ciak, il charleston di Marion; ma questa volta, quando le mani del pianista calarono sulla tastiera, la voce acuta e divertente disse: — Sissignore! Tutto il vecchio straordinario sapore… — L’esplosione di jazz iniziò all’unisono con il termine “sapore”. Sorridente, Marion entrava in scena nel suo vestito rosso pomodoro. — Con tutta la tipica bontà di Huntley! — proseguì la voce; e Marion iniziò a ballare esattamente su “bontà”.