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Jan riagganciò. Col telefono in mano, rimase a guardare nella mia direzione, al lato opposto della stanza. — Ma come… — le dissi.

Jan si limitò a scuotere la testa.

— Lei lo saprà — rispose. — Lo saprà. E ci sarà.

8

La stessa guardia alla reception, dopo lo stesso scambio di sonisi e sguardi di reciproca ammirazione, trovò il nome di Marion su un elenco di visitatori attesi. Il mio non c’era, ma Marion si limitò a dirgli che era tutto a posto, e lui le spiegò come trovare il teatro di posa 2. Poi percorremmo la stessa stradina dello studio, adesso inondata dal sole e piena di gente, che la sera prima avevamo percorso tra silenzio e chiaro di luna.

Una doppia porta d’acciaio verniciata in grigio ci fece entrare nel teatro di posa 2, un altro enorme edificio che pareva un granaio. In fondo alla penombra dell’ampio pavimento di cemento vedemmo un set sfolgorante di luci, con molte persone. Il battere di un martello sul legno echeggiava, produceva una vera eco, nel grande spazio chiuso; un uomo in tuta bianca da falegname entrò dopo di noi e corse avanti con un’asse.

Avvicinandoci, scoprimmo che il set rappresentava tre lati di una grande stanza quasi incredibilmente moderna nell’arredamento. Grandi dipinti privi di cornice, macchie e spirali di colore, erano appesi alle pareti; le statue sui piedistalli e nelle nicchie dei muri erano complessi assemblaggi di metallo, plastica e legno; tappeti e mobili erano bianchi, ma tutto il resto, compresi gli abiti degli attori, sfoggiava colori aggressivi.

Non stavano lavorando, ci rendemmo conto procedendo a passi sempre più lenti e timidi verso il set. In piedi o seduti, chiacchieravano, bevevano caffè da bicchieri di plastica; intanto, tre operai in tuta bianca modificavano l’angolo di un piccolo binario di metallo avvitato su fogli di compensato. Il binario portava al set, vi si proiettava all’interno per un metro circa. All’estremità opposta del binario c’era una macchina da presa su ruote, molto bassa e talmente grande che sul retro era montato un sedile sul quale si trovava un ometto dall’aria nervosa. L’uomo guardava dal mirino della macchina, e dava l’idea di un contadino sul suo trattore.

Ci fermammo ai bordi del set. Qualcuno ci guardò. Di fronte a noi due uomini, non in abiti da party, stavano discutendo. Erano sui venticinque anni, entrambi con basette e capelli piuttosto lunghi. Indossavano maglioni e calzoni sportivi; una tenuta da lavoro. Ci lanciarono un’occhiata e continuarono a parlare, poi uno dei due, con un portablocco sotto il braccio, si avviò sul set verso noi. Avvicinandosi, inarcò le sopracciglia in una domanda muta, e Marion gli sorrise. — Sono Marion Marsh.

Lui consultò i fogli sul porta-blocco. — Perfetto. — Restituì il sorriso con una certa cordialità. — Il signor Hiller spera di poter parlare con lei, signorina March.

— Marsh. Marion Marsh.

— Marsh. Mi scusi. Spera di poter parlare con lei. Nel frattempo… — L’uomo si guardò attorno, poi indicò una grossa scatola grigia sulla quale era scritto il nome dello studio. Si trovava a fianco del set, a un metro circa dal punto in cui iniziava il pavimento coi tappeti bianchi. — Vuole sedersi lì, per favore? E ci resti. Non si muova. — Sorrise di nuovo e tornò dall’uomo col quale stava parlando. Il signor Hiller, probabilmente.

Gli uomini in tuta avevano finito di spostare il binario. Un paio di operai in camicia verde e calzoni spinsero avanti la macchina da presa fino all’inizio del set, poi la riportarono indietro. Stavano provando il binario e l’angolo di ripresa, con l’operatore che continuava a guardare dal mirino. Poi l’operatore annuì a Hiller, che strillò: — Okay, tutti ai loro posti! — e gli attori cominciarono a dare i bicchieri del caffè a uno degli uomini in tuta verde, che faceva il giro del set con un vassoio. Tutti si sistemarono in coppia e a gruppi; qualcuno sedette, ma la maggior parte degli attori rimase in piedi. Una donna con un vassoio di bicchieri parzialmente colmi di liquore cominciò a muoversi tra la folla. Qualcuno prese un bicchiere; qualcuno accese una sigaretta. Una ragazza con un vassoio col necessario per il trucco andò in giro a controllare gli attori, spruzzò cipria su qualche faccia.

Dopo di che, restammo seduti sulla scatola grigia per tre ore. Il binario venne ancora spostato e la scena fu girata tre volte, con lunghe, lunghe attese fra un ciak e l’altro; non ho mai saputo perché. Dopo due ore, uno degli uomini in tuta verde ci portò due Coca in bicchieri di carta. — Da parte del signor Hiller.

Gli attori, uomini e donne, erano giovani o quasi, e indossavano abiti eccentrici, singolari, esageratamente colorati. Marion li studiava. E a ogni ciak, in piedi o seduti, tenevano in mano il bicchiere, la sigaretta, parlavano, ridevano. Forse per una ventina di secondi. Poi uno degli ospiti, un uomo tozzo e barbuto che parlava con una ragazza, esplodeva in una risata molto sonora; tutti si giravano a guardarlo, e la scena finiva lì.

Un po’ dopo le quattro del pomeriggio la scena terminò per la terza volta, e il regista urlò: — Okay, va bene così. — Sospirò, sbatté le palpebre cinque o sei volte, si fece dare un portablocco dall’altro uomo e lo consultò. Poi guardò noi. Restituì il portablocco e ci raggiunse.

— Adesso giriamo con lei, signorina Marsh — disse, fermandosi di fronte a noi. — Scusi il ritardo. Dovranno vestirla e truccarla, e risparmieremo tempo se potrò parlare con lei intanto che è al trucco. — Fece cenno a Marion di seguirlo e girò un angolo del set, verso la parete dell’edificio e una specie di grossa roulotte montata su cavalletti di legno. Sul fianco c’erano una mezza dozzina di porte, e scalini in legno che portavano alla piattaforma davanti a ogni porta: camerini, probabilmente. Una donna di mezza età li raggiunse. Entrarono tutti e tre in uno dei camerini e chiusero la porta.

Il tizio col portablocco urlò: — Silenzio! Silenzio, per favore! — e dopo che le chiacchiere si furono spente disse: — Va bene. Adesso rigiriamo una scena. La… — Guardò il portablocco. — La ottantuno. Controllate il copione, se dovete. È la scena con la ragazza in abito lungo. — Non accadde nulla. Chiacchiere e sorseggiare di caffè e Coca continuarono, e l’uomo col portablocco si buttò su una sedia e restò a fissare il pavimento.

Il regista e Marion uscirono dalla roulotte. Marion era truccata e indossava un lungo abito blu chiaro, con una corda blu scuro alla vita. Mentre procedevano verso il set, vidi che lei era a piedi nudi. — Tutti ai loro posti — urlò il regista, e gli attori si riposizionarono. Adesso occupavano posti diversi: stesso party, ma un’altra scena. Di nuovo vennero distribuiti i bicchieri e ritoccato il trucco.

Il regista accompagnò Marion sul set. Gli attori, in posizione ma muti, li guardavano. Mormorando istruzioni, Hiller guidò Marion e la sistemò al suo posto. Un attore le si avvicinò, le sorrise e disse: — Bla, bla, bla, bla — e Marion sorrise e disse qualcosa. Venne portata a una seconda posizione. Il giovanotto la seguì. Due uomini che stavano discutendo davanti a un quadro si girarono e si avviarono verso Marion.

Provarono l’intera scena. Alla fine, il regista indicò col piede un punto sul pavimento, e io vidi Marion annuire. Hiller guardò l’orologio, poi disse: — Okay, adesso giriamo.

Gli attori ripresero le loro posizioni. Le luci divennero più intense; da chissà dove uscì una musica dura, stridente, ma non troppo forte. Qualcuno urlò: — Silenzio sul set! — L’illuminazione divenne ancora più forte; un’altra voce strillò: — Si gira! — Un uomo con una lavagnetta apparve sul set e camminò verso la macchina da presa, che sul binario si era spinta fino all’inizio del pavimento. L’uomo alzò la lavagnetta, e io lessi: 81. Marion Marsh. Ciak Uno. L’uomo batté l’asticella di legno, uscì di corsa dall’inquadratura. Le chiacchiere del party cominciarono, e io rimasi a guardare, affascinato, eccitato, colmo di ansietà per Marion.