Lei era su un lato del set, vicino al regista, e tutti gli altri parlavano, ridevano, si spostavano, formavano nuovi gruppi. I due uomini guardavano la tela alla parete, davano l’impressione di discuterne. Poi il regista fece un cenno con la testa a Marion, e lei entrò sul set e si fermò nella posizione che lui le aveva indicato. Scrutò il party con un’aria vagamente divertita, vagamente annoiata, e io avvertii un improvviso, piccolo brivido. Marion sembrava così a proprio agio, padrona della situazione; in una maniera che non capivo allora e non capirò mai, col suo modo di camminare, guardarsi attorno, e adesso stare ferma, mi aveva fatto capire che al party era arrivata una persona importante.
L’attore che le si era avvicinato nella breve prova per dire: “Bla, bla, bla” la raggiunse di nuovo, e disse qualcosa che la musica rese incomprensibile. E quando Marion rispose, e sorrise, io vidi il mento dell’uomo sollevarsi un poco, e il suo sorriso di risposta non era finto, svelava un interesse reale. I due uomini davanti al quadro si girarono a guardarli. Uno scrollò le spalle e disse qualcosa, e l’altro rise, voltando le spalle alla parete. In quel momento si accorse di Marion, e lui e l’altro si incamminarono verso lei. Lei li vide, sorrise di piacere, tese la mano; e l’uomo più vicino a lei affrettò il passo per correre a stringerle la destra e salutarla per nome, che era Essie. I quattro rimasero a parlare, a sorridere; poi l’intera stanza (i singoli individui, le coppie, i gruppi) si accorse, quasi all’unisono, della presenza di Essie. Tutti si giravano, la vedevano, la fissavano in silenzio, poi si mettevano a parlare concitatamente con la persona più vicina. Per cui ci fu un momento di silenzio crescente, quasi totale, mentre la stanza scrutava Marion, e subito dopo un eccitato aumento di tono nel brusio delle conversazioni. E anche se gli ospiti ricominciarono a parlare, tutti lanciavano occhiate di soppiatto a Essie, senza stare a sentire cosa dicessero gli altri. Ma stava accadendo anche un’altra cosa: tutto era diventato vero, reale.
Non so se qualcuno sia mai riuscito a darne una spiegazione, ma di tanto in tanto nascono rare persone diverse da tutti noi. Riescono a scatenare qualcosa che è reale, invisibile, e potente nei suoi effetti quanto l’elettricità. E Marion lo stava facendo. Al centro del party, lo teneva in pugno. Gli altri erano intensamente consapevoli della sua presenza, non si limitavano a recitare. Adesso il party era vero (io mi scordai che si trattava solo di un film) perché era entrato in azione un magnetismo. Doveva essersi verificato un momento simile, mi resi conto, la prima volta che la Garbo si era trovata davanti a una macchina da presa.
Marion lasciò gli uomini coi quali stava parlando e raggiunse la sua destinazione finale, il punto sul pavimento che il regista aveva sfiorato con la scarpa. Per un attimo restò a sorridere pigramente, consapevole dell’attenzione che aveva provocato e del tutto indifferente. Poi, quasi senza accorgersi di farlo, mosse leggermente spalle, braccia e fianchi, in maniera indolente e un poco insolente, in un accenno di ballo moderno; una cosa che non poteva avere imparato, che doveva avere intuito. Stava per mettersi a ballare sul serio. L’intera stanza lo capì. Le conversazioni si spensero, e tutti fissarono Marion colti da vero fascino. Per un attimo, lei restò immobile, esitò. Il regista urlò: — Stop! Stop! — e si avviò sul set verso lei.
Ma sorrideva. — Bene — disse, procedendo verso Marion. — Gesù Cristo, è stata grande! Senta — disse in tono stupefatto, fermandosi di fronte a lei — lei ha qualcosa di speciale, lo sa? Una… — Scrollò le spalle. — Non so. Una presenza, credo. Potrebbe rifarlo? — Fu preso dall’improvvisa preoccupazione che lei non ne fosse capace. — Senta, potrebbe rifarlo? Nello stesso identico modo! Non cambi niente. Tranne… — Sorrise, alzò una mano per dimostrarle che non la stava rimproverando, ansioso di non innervosirla nemmeno lontanamente. — Tranne per quell’esitazione — concluse in tono dolce. — Okay! — urlò, ma l’uomo col ciak gli stava battendo sul braccio per attirare la sua attenzione. I due confabularono per qualche istante. Il regista guardò l’orologio. — Okay, andiamo in straordinario — disse. — Dobbiamo girare questa scena. Okay, tutti ai loro posti!
La ragazza del trucco fece un altro giro, l’operatore armeggiò con l’obiettivo, l’uomo con la lavagnetta apparve, diede il ciak; e accadde di nuovo. Però non fu la stessa cosa. Quella volta… Non lo avrei creduto possibile, ma quella volta fu meglio. Meglio perché adesso tutti, sul set, sapevano che quel giorno stava succedendo qualcosa d’importante, e l’aria vibrava dell’eccitazione di quella consapevolezza. Rifecero tutto, e la scena fu una meraviglia. Chi è costei?, diceva la scena mentre Marion raggiungeva la sua posizione finale. Chi è questa incredibile Essie, e cosa farà?
Marion lasciò i tre uomini, si spostò verso la sua ultima posizione, la raggiunse, e si fermò di nuovo, pigra, insolente, serena e orgogliosa. Di nuovo mosse il corpo al ritmo della musica, solo un poco, ma la forza di quella sensuale promessa mi mozzò il respiro in gola. E questa volta, senza la minima esitazione, la sua mano si posò sulla corda blu attorno alla vita e slacciò l’unico nodo. Con un passo in avanti, con le spalle che già ballavano, si liberò del vestito, lo lasciò cadere sul pavimento, e sorrise agli ospiti, completamente nuda. Sulla curva dello stomaco, col rossetto, era stato tracciato un cuore; una freccia piumata blu lo trafiggeva, e pareva che la punta e metà della freccia fossero penetrate nell’ombelico di Marion. E il cuore e la freccia trasformavano la sua nudità in qualcosa di osceno.
Lei sorrise al pubblico, un attimo prima che la danza iniziasse; poi aggrottò la fronte. Abbassò gli occhi su se stessa, li rialzò, ma adesso guardava oltre il pubblico. Dopo di che, quella ragazza del 1926 (per quanto spregiudicata, sempre una ragazza del 1926) disse: — No. — Lo disse a voce piuttosto alta, ma parlava soprattutto a se stessa. — Per la miseria, no. Questo non è cinema. — Si guardò attorno. Il suo sguardo passò in rassegna tutte le facce. — Bastardi — disse. Poi si voltò a fissare il regista, e con una voce gonfia di disprezzo disse: — Bastardo. Questo non è CINEMA! Per niente!
Il regista si rianimò. — Stop! Stop! — Si incamminò verso Marion. — Tu, stammi a sentire! Se vuoi passare questo maledetto provino, se hai intenzione di lavorare ancora… — Si fermò e, come tutti gli altri, restò a guardare.
Marion si era chinata a raccogliere il vestito, e senza prendersi il disturbo di indossarlo, di nascondere la propria nudità, lo buttò sprezzante su una spalla; e a testa alta lasciò il set, diretta al camerino.
Di colpo, tutti quanti trovarono qualcosa d’urgente da fare. Mi ignorarono come se io fossi invisibile. Il regista, in particolare, non ebbe un attimo di quiete: passeggiò rabbiosamente avanti e indietro; ordinò che il set venisse irrevocabilmente smontato il più in fretta possibile; lasciò liberi gli attori; fece spegnere e rimuovere le luci, assieme a tutte le attrezzature. E quando Marion uscì vestita, ogni singola persona fece l’impossibile per ignorarla mentre percorreva il set nella mia direzione, a testa alta, pronta a scoccare occhiatacce a chiunque. Le andai incontro, la presi a braccetto; e percorrendo un angolo del set verso l’uscita lontana, anch’io avevo la testa eretta e l’aria bellicosa, e cercai attorno qualcuno disposto a sostenere i nostri sguardi. E qualcuno lo fece. Alcuni attori e tecnici puntarono gli occhi nei nostri, magari con un’aria un po’ ironica, ma comunque sorrisero per dare la loro approvazione. Però fuori, nella penombra, nel lungo percorso verso le porte di metallo grigio e la strada dello studio, Marion pianse un po’. Poi smise.