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Gli rispose, sinceramente felice e commossa di rivederlo, poi mi presentò, e il vecchio mi diede il benvenuto. La sua voce era molto sicura, sorprendentemente profonda, un poco più lenta di quella di un giovane, ma non troppo. Pareva un uomo vecchio ma ancora colmo di vigore, perfettamente padrone della mente e delle facoltà cerebrali. Però non poteva essere così, mi resi conto: se non era alla senilità, era comunque approdato al vago, generico stato confusionale che la precede. Perché non lo sfiorò nemmeno l’idea che la Marion Marsh che aveva conosciuto doveva essere una donna di ottant’anni. Chiaramente, per lui Marion era soltanto Marion, cioè la ragazza dei suoi ricordi, come era sempre stata. Però rammentò una cosa: — Hai cambiato il colore dei capelli, eh? — Scosse un indice che era un rametto secco, sorrise. Lasciò la scala e cominciò a muoversi sulla grande scacchiera, verso la doppia porta scorrevole. — Erano biondi! E tagliati alla maschietta — disse. Mi strizzò l’occhio e scosse la testa, come per dire “Queste donne!” — Però per il resto non sei cambiata. Nemmeno un po’. Riconoscerei quel sorriso da per tutto.

— E nemmeno tu sei cambiato. Ho ricono…

— Hai riconosciuto questo naso! — Una risata catarrosa, poi un colpo di tosse soffocato. — Quello non cambia!

— Secondo me è carino.

— Però il resto di me è cambiato, sono pronto a dichiararlo al mondo. Ragazzi, ragazzi, ragazzi. — Si fermò davanti alla grande porta, infilò le punte dei pollici nei due fori per l’apertura. — Tu non sei mai stata qui, vero? — chiese, incerto. — Sei stata a qualcuno dei party che davamo?

— No.

— E lei, signore? Nick? È la sua prima visita a Graustark?

— Sissignore.

— Bene. Ottimo. Tanti pensavano che io fossi scemo a comperarla, ma mi piace farla vedere. — Cominciò ad aprire la doppia porta, e io andai a dargli una mano; poi lui ci fece cenno di precederlo in una stanza non molto più piccola della palestra delle superiori dove giocavo a basket.

Come l’ingresso, era alta due piani; le tende erano chiuse, l’illuminazione soffusa. Somigliava più all’atrio di un buon hotel degli anni Venti che a un soggiorno; e chiaramente, era stata progettata in funzione di grandi feste. Appena superata la soglia, ci trovammo a guardare un locale con dodici o quattordici divani, e non so quante decine di poltrone imbottite, con stoffe fuori moda da decenni; e nonostante tutto quello, lo spazio era ancora aperto, arioso. C’erano tappeti altissimi, tre pianoforti a coda (tre), ognuno coperto da uno scialle a frange e da miriadi di fotografie in cornice. E tavoli, lampade, enormi vasi, soprammobili, statue, dipinti. C’erano lampade da pavimento alte un metro e ottanta, due metri. Una era completamente di vimini, anche il paralume, e la luce filtrava dai vimini; e quasi tutte erano adorne di altri ricchissimi scialli. A metà altezza della parete iniziava una balconata con porte chiuse che correva su tutti i lati della stanza, tranne quello dal quale eravamo entrati. Altri scialli spagnoli erano appesi alla ringhiera della balconata; su uno era ricamato un cactus, sugli altri rose.

Percepii tutto questo a una prima, veloce occhiata. Poi la mia testa si fermò, e rimasi a fissare la scala sul lato opposto della grande stanza, e non appena la vidi mi resi conto che quell’ambiente enorme era solo uno sfondo per la scala.

Dalla balconata, gradini delimitati da uno sfarzoso corrimano scendevano lungo la parete di fronte a noi. A non più di un metro sopra il livello del pavimento, terminavano in un pianerottolo in marmo bianco grande quanto un piccolo palcoscenico. Da lì, tre soli scalini di enorme ampiezza scendevano fino al pavimento, ognuno un po’ più largo del precedente. L’ultimo, con gli orli artisticamente arrotondati, doveva essere largo almeno cinque metri. Il pianerottolo era un palcoscenico, studiato per un’apparizione mozzafiato dall’alto, per attirare l’attenzione di tutti prima di scendere nella stanza e unirsi alla folla.

Ma poi capii che anche il pianerottolo era solo uno sfondo all’interno di uno sfondo per qualcosa d’altro. Sulla parete sopra il pianerottolo, rivolto verso la stanza e la grande entrata sulla quale cj trovavamo in quel momento, era appeso il ritratto, come minimo a grandezza naturale, di una donna così magnifica che il mio corpo ebbe un brivido quando lo guardai. Conoscevo quel viso: Vilma Banky, in un abito da sera degli anni Venti lungo fino alle ginocchia, con uno scialle spagnolo su una spalla. Aveva la testa girata e il mento leggermente sollevato, a mostrare il suo magnifico profilo. Al centro della fronte, un ricciolo di capelli tracciava spirale su spirale, all’infinito, ma se la cosa vi può sembrare buffa, non lo era: quella era una donna bellissima, stupenda, e nulla avrebbe potuto renderla assurda. Luci nascoste illuminavano il dipinto da ogni lato, senza creare riflessi, e la cornice dorata doveva essere alta almeno tre metri. E il ritratto era appeso a un’altezza scientificamente studiata. Chiunque (a eccezione di King Kong) fosse sceso dalla balconata sul pianerottolo si sarebbe trovato sovrastato da Vilma Banky.

Ted restò ad aspettare che noi due ci riempissimo gli occhi, come senza dubbio faceva sempre quando portava qualcuno in quella stanza per la prima volta. Alla fine ci girammo verso lui, mormorammo i nostri complimenti, e lui annuì, sorrise, e li accettò a nome di Vilma Banky. — Sì. Grazie. Questa è la stanza di Vilma. Ed è ancora casa sua, praticamente identica a come l’ha lasciata. Ho fatto lavorare per più di un anno, a tempo pieno, un gruppo di ricercatori prima di iniziare i lavori. Hanno consultato vecchi quotidiani e riviste e resoconti vari. Hanno intervistato o scambiato corrispondenza con gente che era stata qui spesso. Moltissime persone. E molte ci hanno prestato le fotografie che avevano scattato. Hanno consultato diari e lettere del periodo in cui Vilma ha vissuto qui. Hanno letto i suoi appunti sulle questioni domestiche. E per fortuna avevamo il catalogo dell’asta, con descrizioni millimetriche di praticamente tutto ciò che si trovava in questa casa. Così siamo riusciti a rintracciare molte delle cose che erano state vendute. Compreso il dipinto. Soprattutto il dipinto. Nella maggioranza dei casi siamo stati in grado di ricomperare. Molti mobili sono stati restaurati, riportati alle condizioni originali. Certe stoffe sono state addirittura ritessute. Una parte dei mobili è stata rifatta ex novo. Quindi adesso… Be’, lei si troverebbe a proprio agio in casa sua, se potesse tornarci. Però ho aggiunto alcune cose.

A passi lenti, si avvicinò a quello che mi era parso un tavolo dal piano ovale, molto elegante, con gambe sottili; ma seguendo Bollinghurst, vidi dapprima che il piano era in vetro, e poi che una piccola lampada schermata sotto il piano illuminava l’interno di quello che non era un tavolo, ma una vetrinetta foderata in seta azzurro mare. Ci fermammo davanti al mobile, abbassammo gli occhi; e io non capii cosa stessi vedendo al centro della vetrina, su un cartoncino stampato.

Era un grumo informe grande quanto una monetina da dieci cent, di colore fra il rosa e il grigiastro, con la superficie corrugata. Stava al centro di un pezzo di tela vagamente circolare, dai bordi frastagliati, delle dimensioni di una mano. Prima che io potessi leggere il cartoncino, Ted spiegò, abbassando la voce in segno di rispetto: — È la gomma da masticare che Spencer Tracy ha appiccicato sull’aereo di Clark Gable in Arditi dell’aria. — Marion sollevò un poco la testa a guardarmi, perplessa, e io lessi la sua espressione: chi è Spencer Tracy? Chi è Clark Gable?

— E questa… — Ted Bollinghurst stava ripartendo, e a quel punto vidi che metà dei tavoli della stanza non erano tavoli, ma vetrinette. Ci fermammo davanti a quella più vicina, foderata di una seta altrettanto sbiadita però di colore giallo, e ci chinammo. — La frusta di Ramon Navarro. Da Ben Hur. — E adesso Marion, col naso che quasi toccava il vetro, sorrideva, soddisfatta, compiaciuta, colpita.