Aggirammo lentamente un pianoforte, e tra le dozzine di fotografie piazzate sulla coda, tutte con dedica a Ted (e spesso col suo nome sbagliato), riconobbi quelle di Clive Brook, Leatrice Joy, Aileen Pringle, Larry Semon, Rod La Rocque, Clara Kimball Young. Marion e io rialzammo la testa nello stesso momento, i nostri occhi si incontrarono, e sorridemmo nel riconoscere quello che sembrava un ricordo comune. Però non lo era. Avevamo visto le stesse persone negli stessi film, e ogni minimo movimento sullo schermo era stato identico per entrambi, ma ovviamente avevamo visto cose diverse. Per lei si era trattato di persone giovani e belle, più vive che mai, e di film nuovi che preludevano a chissà quanti altri. Per me invece erano state resurrezioni, il miracolo finalmente reso possibile dal cinema: vedere persone scomparse, ormai mitiche. Ma sorridemmo e annuimmo, ognuno con un proprio piacere, e ci avvicinammo con Ted a un’altra vetrina identica alle precedenti, solo che era foderata in rosa.
Tutte quelle fodere di seta slavata avevano la stessa tessitura, cambiava soltanto il colore; e tutte erano fissate ai lati delle vetrine a grandi svolazzi, e tese sulle imbottiture al centro. Sul rosa di quella vetrinetta c’era… Cosa? Peli, neri come l’inchiostro, che possedevano ancora una forma ben definita. Se fosse stato possibile applicarli a un viso, sarebbero stati una barba perfetta; pizzetto alla Van Dyck, basette e baffi erano chiaramente distinguibili. Sul cartoncino era stampato BARBA DI RODOLFO VALENTINO, TAGLIATA NELL’ESTATE DEL 1924 su RICHIESTA DELL’ASSOCIAZIONE NAZIONALE BARBIERI. Marion stava annuendo. — Sì, ricordo. Ne hanno parlato tutti i giornali.
— La comperò Charley Morrison. Direttamente dal barbiere. Sì, è proprio vera. Per dieci soli dollari, brigante fortunato. Non me l’avrebbe mai venduta, ma quando lui è morto, nel 1950, l’ho comperata dalla vedova. Ho concluso l’affare al funerale. Ci sono stato costretto. Mi avevano detto che interessava alla Donna in Nero.
Sulla seta verde mela della vetrinetta successiva c’era un foglio battuto a macchina, con correzioni a mano sui margini e tra una riga e l’altra. — Un pezzo rarissimo — disse Ted. — È la quarta e quasi definitiva stesura della lettera annuale di Shirley Temple a Babbo Natale, pubblicata ogni dicembre in tutto il Paese. Questa l’ha scritta quando aveva quattordici anni. È una delle ultime. Alcune delle correzioni ai margini sono di L. B. Mayer in persona. — Guardammo colmi di meraviglia, chini sull’etereo mobiletto, e io lessi il foglio fino a “e ti prego, ti prego caro Babo, non dimenticare tutti i bambinni…” Lì mi fermai.
Vedemmo la gobba usata da Lon Chaney in Notre Dame de Paris, un meraviglioso grumo di stucco in un’imbracatura di cuoio. Non mi sarebbe dispiaciuto possederla e indossarla in casa, di tanto in tanto.
Ci trasferimmo a una cosa nera, informe, che a me sembrò un meteorite appoggiato su seta bianca, e devo darne atto a Ted: ci spiegò scrupolosamente che non era del tutto certo dell’autenticità di quel pezzo. Pensava, aveva motivo di credere, che si potesse trattare del mezzo pompelmo che James Cagney aveva spiaccicato in faccia a Mae Clarke in Nemico pubblico. Lo aveva comperato per venti dollari da un inserviente del set che gli aveva garantito l’assoluta originalità del pompelmo, però Ted non era convinto al cento per cento che quel frutto non fosse stato usato solo per le prove.
Vedemmo, su una seta color sorbetto all’arancia, tre frammenti delle decorazioni dell’albero di Natale al quale spara William Powell, con un fucile ad aria compressa, in L’uomo ombra. E su una seta blu scuro (quello era un pezzo autentico sul serio, perché Ted in persona lo aveva rubato dal camerino di Marlene Dietrich subito dopo l’ultimo giorno delle riprese di Marocco), un flacone di crema depilatoria.
Su seta argentea: quattro oggetti d’oro a forma di mezzaluna. Chino sulla vetrina, vidi che gli orli interni erano affilati, sottili come fogli di carta. Parevano scimitarre in miniatura con tanti piccoli fori. RINFORZI DEI TACCHI DELLE SCARPE DI RUBY KEELER, LOGORATI SUL SET DI “QUARANTADUESIMA STRADA”.
— D’oro? — chiesi a Ted.
— Li ho fatti placcare.
Vedemmo la farfalla artificiale che Lew Ayres tentava di afferrare dalla sua trincea, appena prima che gli sparassero nella scena finale di Niente di nuovo sul fronte occidentale; e un mezzo dollaro lanciato da George Raft. E in una delle ultime vetrinette, un piccolo oggetto lungo circa quattro centimetri, su seta scarlatta. La forma ricordava vagamente quella di un otto; era avvolto nel cellophane e fermato a metà da un nastro di carta. Non c’era il solito cartoncino. Ted lanciò un’occhiata nervosa a Marion, poi si chinò verso me. — Viene da un film di Andy Hardy — sussurrò. — È il contraccettivo che Lewis Stone trova nel taschino per l’orologio dei calzoni di Andy, il mattino dopo il ballo studentesco. Ovviamente, nel film non si vede. Il giudice Hardy lo tiene nascosto in mano quando lo mette sotto il naso di Andy, non dice di cosa si tratti, ma si capisce benissimo. Me lo ha dato il giudice in persona.
Avevamo raggiunto le scale, e ci fermammo un momento. La parete era tappezzata da scaffali di libreria dal pavimento al livello dell’occhio; sugli scaffali, volumi rilegati in pelle con scritte in oro sui dorsi. Ogni volume conteneva un’annata di Photoplay, Silver Screen, o qualcuna delle altre vecchie riviste di cinema, ognuna contraddistinta da un suo colore. Lo scaffale più in basso ospitava sceneggiature rilegate in pelle, a cominciare da La grande rapina al treno.
Guardandole, mi tornò in mente l’articolo di uno psichiatra che avevo letto da qualche parte. Costui sosteneva che è probabilmente una fortuna il fatto che non troppi individui dalla personalità ossessiva siano ricchi. Faceva l’esempio di un uomo ossessionato dalla paura dei germi. Aveva cominciato come certa gente che tutti noi abbiamo conosciuto, persone che aprono la porta con la mano infilata in una tasca della giacca per sfuggire ai germi annidati sulla maniglia. Ma quello era ricco, e poteva permettersi di lasciare crescere in modo incontrollato la propria ossessione. Dopo un po’, viveva a Parigi, in una suite d’hotel dove solo un suo cameriere poteva entrare. Poi cominciò a pagare per tutte le stanze di quell’ala, tenendole vuote, e poi per le stanze al piano sopra e sotto. Finalmente isolato nello spazio, doveva pur sempre mangiare. Alla fine, si ridusse a sopravvivere solo di cibi stracotti, enormi arrosti che il cuoco abbandonava davanti alla sua porta e che lui prendeva solo dopo che il cuoco se n’era andato. Dopo di che, nella stanza, col suo coltello, l’uomo scavava un cubetto al centro dell’arrosto, una minuscola porzione di carne che nessun’altra mano poteva aver toccato.
Anche Ted Bollinghurst era soltanto un uomo con un’ossessione piuttosto comune (un appassionato di cinema, un fanatico di vecchi film, e non siamo in pochi), però aveva i soldi per arrivare ai limiti estremi. E io sapevo che l’unica cosa che mi rendesse diverso da lui erano pochi milioni di dollari. Ai piedi della scala di Vilma Banky, ero pronto a salire, ansioso di vedere dove portasse.
Avevo scacciato la domanda per paura della risposta che avrei sentito; e quando Marion la fece, lanciandomi un’occhiata, io trattenni letteralmente il fiato. — Ted, tu collezionavi copie dei film che ti piacevano — cominciò Marion.
— Sì. Vuoi dire che le rubavo. — Lui sghignazzò, e fu costretto a tossire.