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La cucina era tanto ampia da contenere un grosso tavolo rotondo di legno, adesso coperto da una tovaglia di lino con una decorazione a scacchi blu e bianchi, e apparecchiato per tre con la porcellana fine e i bicchieri azzurri. Attorno al tavolo, quattro sedie in legno vecchio stile; Jan le aveva smaltate a colori diversi, e le assicelle degli schienali erano di tutti e quattro i colori. C’era una vecchia stufa economica a gas, con lo sportello del forno, bianco, decorato dalla scritta WIDGEWOOD a lettere blu. Il lavandino era vecchio, con un gocciolatoio in legno pieno di crepe; dovevo sistemarlo. Il frigorifero era nuovo, come i due piani di lavoro coperti in formica, coi credenzini sotto; su un lato si apriva la porta della grande dispensa. Jan era davanti al fornello, con un grosso cucchiaio di legno in una mano, un cocktail nell’altra. Il grembiule era più lungo della gonna; Jan ha un paio di gambe molto, molto belle che mi interessano ancora enormemente. Avevo messo Al nel cortile sul retro con la sua cena. Papà e io eravamo a tavola, appoggiati agli schienali delle sedie, e sorseggiavamo i nostri drink.

— Perché lo ha scritto? — stava dicendo lui a Jan. — Non so. Un’azione impulsiva. Come faceva sempre tutto. All’improvviso, aveva deciso di trasferirsi a Hollywood. Era apparsa in due o tre film. Nel primo, in una scena di massa che non era nemmeno sopravvissuta al montaggio. Ma dopo il secondo e il terzo, pensava di poter avere una carriera nel cinema. — Papà scrollò le spalle. — E magari avrebbe anche potuto averla. Era un’attrice. A quell’epoca, questa città era piena di teatri, e io l’ho vista parecchie volte. Al vecchio Alcazar. — Annuì una volta o due. — Era brava, come no. — Bevve un sorso del suo drink.

— Forse non dovrei chiedertelo — disse Jan, e si zittì, rossa in viso.

Papà sorrise. — E forse io non dovrei risponderti. — Alzò il bicchiere alla luce. — Ma tra i due drink robusti, il piacere di essere qui e lo shock di avere rivisto sulla parete quello che ha scritto Marion, ti risponderò. La risposta è che pensavo di esserlo. Innamorato di lei. Era questo che intendevi, giusto? — Jan annuì, ancora più rossa in volto di prima, e con un gesto nervoso scostò i capelli da una spalla. — Be’, pensavo di essere innamorato, e lo pensava anche lei. A dire il vero, avevamo parlato di matrimonio. — Papà si girò a sorridermi. — Se ci fossimo sposati, tu non esisteresti, esatto? E ti starebbe bene, dopo lo scherzo che mi hai fatto in soggiorno.

— Oh, esisterei lo stesso — dissi. — Non avresti potuto tenermi fuori dalla tua vita. Però probabilmente somiglierei un po’ di più a Jean Harlow. Almeno, è l’idea che mi sono fatto di Marion Marsh. — Come tanta gente, i vecchi film mi interessano molto; li colleziono, nel mio piccolo. Quindi quella storia mi affascinava.

— No, non era nemmeno particolarmente bella. Piuttosto carina, direi, ma non ne sono sicuro. È che quando stavi con lei non ci pensavi proprio, alla bellezza. Aveva un anno più di me. — Jan aveva cominciato a versare roba nei piatti di portata, e papà e io ci alzammo per aiutarla a metterli in tavola.

Cominciammo a mangiare. Jan mi disse di accendere la caffettiera elettrica, che stava sul bordo del tavolo, e io obbedii. Poi versai il vino; papà lo assaggiò e mi sorrise, annuì per esprimere il suo apprezzamento, poi assaggiò il cibo e fece i complimenti a Jan. E fatte tutte queste cose, Jan si protese sul tavolo verso papà, e con la franchezza di una persona timida che è momentaneamente riuscita a vincere la timidezza chiese: — Perché? Perché non lo hai fatto? Perché non l’hai sposata?

— Non ero pronto a rinunciare a tutto, fare le valigie, e trasferirmi con lei a Hollywood. — La faccia di papà si coprì di rossore: il vecchio litigio era tornato in vita. — Io cosa avrei fatto, là? Non interessavo al mondo del cinema. Nessuno si sarebbe mai interessato a me, a Hollywood. Sarebbe stato assurdo. Allora come oggi. — Aveva la fronte corrugata. Mi scoccò un’occhiata nervosa, prese il bicchiere e bevve il vino. — E naturalmente sono felice di non averlo fatto. Molto felice — mi disse in tono severo, come se io stessi pensando di negare la sua affermazione. — Non avrei mai conosciuto tua madre. — Si mise a tagliare la carne, con gli occhi puntati sul piatto. — Abbiamo litigato. Capivo il suo punto di vista, anche se non volevo che lei partisse. Nel secondo film aveva avuto una piccola parte che le aveva procurato una certa attenzione. Ancora prima che il film uscisse, ottenne una parte piuttosto buona nel terzo. Fino ad allora, aveva continuato a lavorare qui. Era qui che guadagnava e aveva una vera carriera. Andava a Hollywood per un paio di giorni di riprese, al massimo, e poi tornava. Però quella era una parte più grossa, più lunga. Doveva fermarsi là, e all’improvviso decise che il cinema sarebbe stato la sua carriera. Tornò un weekend a prendermi su. Ma io non volevo partire. Dopo un po’, lei si mise a piangere. Poi cominciò a coprirmi di maledizioni, e, credetemi, quella era una cosa che sapeva fare benissimo. Poi si alzò di scatto, corse alle finestre… — Papà alzò gli occhi. Sorrideva. — E spalancò quella centrale. In teoria, io avrei dovuto temere che potesse buttarsi. Ma la conoscevo troppo bene. Era l’ultima persona al mondo capace di fare una cosa del genere. Restai seduto a guardarla, sorridendo. Così lei si inginocchiò sul sedile del bovindo, si sporse in fuori, e guardò la città, come se fosse stata quella la sua unica intenzione. Era una bella giornata, fresca e assolata, ricordo. Il tipo di giornata di San Francisco che dovremmo esportare a Chicago. E lei disse di amare il panorama. Di amare San Francisco. Di amare questo appartamento. E me. Ma per la miseria, sarebbe andata a Hollywood! Io non le risposi. Lei tirò dentro la testa, si voltò, e mi fissò per un minuto. «Un giorno andrai a vantarti in giro di avermi conosciuta, bastardo!» disse. E aveva ragione, no? Poi strillò: «E questa casa sarà celebre perché sarà la casa nella quale ho vissuto io…». Era arrivata all’eccitazione totale in una frazione di secondo. Tipico di Marion. Saltò giù dal sedile, corse nella stanza, e si arrampicò sullo schienale del divano. Continuava a cercare di punirmi mettendo in pericolo la sua incolumità, chiaro? E, immagino, voleva anche dimostrare a se stessa che io tenevo ancora a lei. Be’, ci tenevo. E questa volta io saltai su e corsi al divano, perché avrebbe potuto cadere con un niente. Poi cominciò a camminare sullo schienale, scrivendo sulla parete col rossetto. Portava una gonna corta, e sapeva che io ero sotto a guardarla. — Papà sorrideva, con lo sguardo puntato sul nulla, la forchetta immobile nella mano. — “Marion Marsh ha vissuto qui”, scrisse, poi si girò a guardarmi. Poi… era proprio svitata… disse, o meglio mormorò: «Prendimi, Nick», e senza aggiungere altro, si buttò giù all’indietro.

Papà guardò Jan, poi me, continuando a sorridere. — Be’, la presi al volo. Mi sono quasi rotto la schiena, però l’ho presa. Adesso ho settantanove anni, e la cosa potrebbe suonare strana alle vostre giovani orecchie, ma ricordo ancora esattamente e precisamente in che modo quella ragazza balorda cadde, diritta fra le mie braccia. Figliolo, non voglio mancare di rispetto alla memoria di tua madre. Mi sorrise, tutta dolcezza e allegria, alzò la testa per baciarmi, poi saltò a terra e disse: «Scosta quello scemo di divano dalla parete, scemo», solo che non usò esattamente questi termini. Poi scrisse il resto di quello che avete visto.

Io lo stavo fissando in preda alla meraviglia. Quello era un quadro del tutto inedito su un padre che all’epoca aveva una decina d’anni meno di me. — Se fosse rimasta a San Francisco, l’avresti sposata, vero? — chiesi. Ma non era proprio una domanda.

— Non so. Come potrei dirlo? Non avevo ancora conosciuto tua madre. Non voglio discuterne. — Papà restò zitto per un attimo, poi aggiunse: — Però credo di poter dire che Marion Marsh avrebbe risvegliato lo spirito competitivo in molte donne.