Arrivato al mio portico, leggermente senza fiato dopo la salita, pensai come sempre che avrei dovuto cominciare a fare jogging. E mi fermai a guardare un’altra volta la città, convinto di provare le stesse sensazioni di prima. Invece, in quel momento, senza un motivo comprensibile, venni trafitto da una perfida pugnalata di depressione. Era già successo, e c’ero abituato; com’ero abituato alla successione quasi automatica di pensieri che accompagnavano la depressione. L’idea stessa di quei pensieri mi annoiava e mi deprimeva a priori, così saltai quelli più grossi, i grandi problemi nazionali e internazionali dei quali sarete stanchi anche voi. Il pensiero successivo era l’idea che ormai da quasi cinque anni lavoravo in un posto che in teoria doveva essere solo un punto di passaggio fra l’università e chissà cosa; bastava solo che io scoprissi cosa realmente volevo fare. Ma per il momento, l’unica cosa che avessi scoperto era che non esisteva alcuna professione che mi interessasse sul serio. E nella mia testa aveva cominciato a prendere piede l’inquietante idea che quel lavoro (che era abbastanza gradevole, e nel quale riuscivo piuttosto bene, ma che non aveva il minimo rapporto con un solo tratto significativo della mia personalità) potesse essere permanente. Un giorno, incredibile!, avrei potuto trovarmi in pensione dopo avere trascorso tutta la mia vita lavorativa alla Crown Zellerbach. Poi giunse la consapevolezza che per Jan e me era l’ora di fare un figlio. Era un nostro desiderio, sul serio. A me piacciono i bambini, e piacciono anche a Jan, e prima o poi li avremo, ma come tanta gente avevamo deciso di concederci prima qualche anno senza problemi, e io non ero mai pronto a dire che gli anni senza problemi erano finiti. Poi c’era tutta una serie di altri pensieri altrettanto cupi e rituali. L’intera sequenza era diventata automatica, e io me ne stavo lì, col cervello quasi inerte, a fissare la città (centinaia di finestre erano un unico bagliore arancio nella luce del sole al tramonto), quando sentii aprirsi una finestra sopra il tettuccio del portico.
— Nick?
— No. Nick resta in ufficio fino a tardi. Io sono il teppista di quartiere, Rupert lo Stupratore. Apra, signora. Oggi tocca a lei.
— Cosa ci fai lì?
— Sto in equilibrio su una gamba sola. Sto cercando di stabilire il record mondia…
— Vieni su, Nick! Ho qualcosa da farti vedere!
— Okay. — Mi girai verso la porta, ed estrassi la chiave, ma prima che potessi infilarla nella serratura, sentii Jan correre giù per le scale. Spalancò la porta e mi sorrise, tutta eccitata. Indossava il pullover e i calzoni grigi che aveva comperato col buono-regalo che sua madre le aveva donato per Natale. Aveva in mano una rivista di piccolo formato, Tv Guide, e il pollice era infilato tra le pagine. Non parlò. Aprì la rivista e puntò l’indice. Le brillavano gli occhi.
Giovedì 14 giugno, lessi in cima alla pagina, e vidi che l’unghia smaltata di Jan era appoggiata sul disegnetto a forma di schermo televisivo, con un 9 stampato in bianco. La data di quel giorno; il Canale 9 era la rete televisiva della zona della Baia. Le presi di mano la rivista e, mentre salivo le scale, lessi il pezzo. 21,30. ALLE ORIGINI DEL CINEMA. Ragazze focose, film muto degli anni Venti con Richard Abel e Blanche Purvelclass="underline" bonacce piene di liquore, gioventù sfrenata, automobili veloci, e feste da capogiro. Accompagnamento al pianoforte basato sullo spartito originale di Mabel Ordway.
Sorridevo quando arrivammo al nostro pianerottolo. — Ragazza, tu non lo sai, ma probabilmente mi hai appena salvato la vita. — Baciai Jan, con molto trasporto: e lei arrossì. — Adesso come diavolo riuscirò ad aspettare fino alle nove e mezzo?
Alle nove e ventotto accesi il televisore del soggiorno, lo sintonizzai sul Canale 9, e aspettai che si materializzassero immagini e suoni. All’altro lato della stanza, Jan sedeva sul divano imbottito, e Al era sdraiato sul tappeto, più o meno fuori combattimento com’è di solito dopo cena. Arrivò il sonoro: la voce di un uomo con un sottofondo musicale. La musica crebbe di volume, e la voce svanì. Poi l’immagine si gonfiò sino a riempire lo schermo, ruotando lentamente dall’alto in basso. Sintonizzai i comandi, e l’immagine si fermò. Due uomini, su sedie di plastica, stavano l’uno di fronte all’altro. Uno ascoltava e annuiva a lenti cenni del capo; le labbra dell’altro si muovevano, ma non si udiva parola, perché la musica sovrastava completamente la voce. La telecamera indietreggiò, e i due cominciarono a rimpicciolire, senza smettere di parlare. Uno dei due rovesciò la testa indietro in una risata. Sembravano totalmente presi da ciò che stavano dicendo, al punto di non essersi accorti che il programma era finito.
Mi sedetti sul divano. Sullo schermo apparve il logo della stazione televisiva, KQED. Per un po’ di tempo, una ventina di secondi o più, le lettere rimasero lì, mute; c’era solo il ronzio del televisore. Dissi: — Questa sì è classe. Niente annunci pubblicitari. — Mi allungai sul divano, stesi le gambe, e appoggiai i piedi (portavo un paio di pantofole molto morbide) su Al, che si trovava esattamente al posto giusto. Lui alzò la testa, a guardare dapprima me, poi i miei piedi. Potevo leggergli nel pensiero. Si stava chiedendo quale fosse la mossa meno faticosa: fare lo sforzo di alzarsi e sfuggire alla mia portata, oppure restare sdraiato e sopportare in silenzio. Ci pensò su, poi riabbassò la testa; con un sospiro, mi pare. Gli dissi: — Questo fa parte del tuo mestiere di cane, Al. Non basta abbaiare ai quattro venti. Devi guadagnarti la tua scatoletta quotidiana di cibo per cani da settantanove cent. Si paga tutto. — Con uno sforzo supremo, lui sbatté due volte la coda sul pavimento, e io tolsi i piedi dal suo corpo. Il logo della stazione televisiva svanì, e apparve la scritta ALLE ORIGINI DEL CINEMA, sovrimpressa su una fotografia di Charlie Chaplin. L’improvvisa colonna sonora fu una tempesta di pianola meccanica. Un bel giovanotto, in giacca e cravatta a farfalla, spuntò sullo schermo. Lo sfondo dipinto alle sue spalle rappresentava la cassa di un cinematografo. Il giovanotto parlò in tono gradevole, e con aria apparentemente autorevole, dei film degli anni Venti. Le solite balle. Dissi: — Lo vedi il sorrisetto divertito? Indica che quello sa che i vecchi film sono un po’ ridicoli. Però nota la voce misurata, il tono accademico. Nessuno potrà mai accusarlo di prenderli in giro.
— Ma cos’hai stasera?
— Sono Samuel Johnson. La mia mente è un bisturi. Riesco a vedere dietro tutte le facciate fasulle. La verità è che per quanto possa sembrare ridicolo, sono eccitatissimo.
— Anch’io.
Lo schermo diventò scuro, e (con Jan protesa a spalle in avanti per l’entusiasmo) il titolo del film apparve a lettere bianche su un fondo nero che era sbiadito, non completamente nero. Ragazze focose, diceva incredibilmente, in un grazioso corsivo d’epoca. Un film Paramount. L’accompagnamento al pianoforte (non più una pianola meccanica, grazie a Dio) diminuì di volume fino a diventare uno sfondo quasi impercettibile, però di importanza essenziale: ci ritrovammo in un altro tempo, molto prima che il cinema possedesse il sonoro. I titoli di testa corsero veloci, e piuttosto concisi. Lo schermo tornò buio per un attimo; poi apparve un’enorme automobile con tanto di chauffeur che imboccava un sentiero circolare in ghiaia, passando fra due alti cancelli in ferro battuto. Jan mi strinse il braccio. — Non posso crederci! La tensione mi uccide! Vedremo Marion Marsh!