Pensai che mi rimanesse un solo articolo da mostrargli prima che lui cominciasse a pensare di rivolgersi altrove: il complesso di edifici delle Nazioni Unite. L’ONU era caduto in un complicato limbo legale. Le Nazioni Unite avevano mantenuto il diritto di proprietà quando avevano spostato il loro quartier generale fuori da New York; ma quando fallirono, lo stato di New York, la città di New York e il governo federale, avanzarono delle pretese su di essi, insieme ai creditori stranieri delle Nazioni Unite. L’Ufficio Nazionale delle Antichità non aveva titoli definiti, ma amministrava la proprietà per conto del governo federale. Se fossi riuscito a rifilare a Ito quel dannato affare, l’Ufficio Nazionale dei Rottami sarebbe stato anche troppo contento di intascare l’assegno e di lasciare che gli altri si affannassero ad impadronirsi di quel danaro. E una volta che lui l’avesse trasportato a Kyoto, il governo giapponese non avrebbe permesso che qualcuno cercasse di impossessarsi di un articolo per il quale uno dei suoi più eminenti cittadini aveva sborsato un bel po’ di yen.
Così feci un balzo a mach 1,7 sopra le acque oleose dell’Est River in direzione est verso il complesso delle Nazioni Unite nella Quarantaduesima. A quell’ora del giorno e da quell’angolazione gli edifici delle Nazioni Unite offrivano quella che speravo fosse una veduta romantica secondo lo stile giapponese. Il Segretariato era una gigantesca lapide di vetro inondata dal sole del tardo pomeriggio, appena velato dalla foschia grigia che ristagnava perennemente sopra Manhattan; al suo fianco, la bassa struttura incurvata dell’Assemblea Generale dava al complesso un equilibrato profilo calligrafico. L’effetto globale era simile a quello degli antichi cancelli Torii giapponesi, stagliati contro il cielo nebbioso al tramonto, solo su scala molto maggiore.
L’Insurrezione aveva lasciato intatte le Nazioni Unite (i ribelli avevano nutrito uno strano rispetto per quell’istituzione) e dal fiume si riuscivano a scorgere a malapena il sudicio mercato all’aperto a cui era stato permesso di prosperare nella piazza, e i bar malfamati lungo la Prima Avenue. Per fortuna, l’Ufficio Nazionale delle Antichità si faceva un punto d’onore di mantenere gli edifici in buono stato, sapendo che le pretese del governo federale avrebbero potuto essere vanificate se fosse trapelato che l’Ufficio li stava lasciando cadere a pezzi.
Portai il saltapicchio ad una quota di novanta metri e mi allontanai dal fiume, cominciando il mio discorsetto: — Davanti a lei, Mr. Ito, ci sono gli edifici delle Nazioni Unite, malinconico simbolo di uno dei più nobili sogni dell’uomo, ora purtroppo vuoti e abbandonati, un monumento alla tragedia della sfortunata scomparsa delle Nazioni Unite.
Barbagli di sole, riflessi dal fiume e poi dalle centinaia di finestre che formavano la facciata del Segretariato, scintillavano ad intermittenza attraverso il monolito di vetro mentre guidavo il saltapicchio attorno all’edificio. Quando fummo sul lato occidentale, la grande facciata di vetro diventò una cortina di fuoco arancione.
— Il Segretariato potrebbe essere sistemato nei suoi giardini in modo da riflettere sia la luce dell’alba che quella del tramonto, Mr. Ito — gli fece notare. — È considerato uno dei più begli esempi di Utilitarismo del Ventesimo Secolo e lei può constatare che si trova in eccellenti condizioni.
Ito non disse nulla. I suoi occhi non ammiccarono neppure. Persino i muscoli del viso sembravano innaturalmente legnosi. Il saltapicchio fu di nuovo sul lato posteriore del Segretariato, e la mole dell’edificio eclissò sia il sole che i suoi giganteschi riflessi; sotto di noi c’era il tetto di cemento grigio dell’Assemblea Generale.
— E naturalmente il significato storico degli edifici delle Nazioni Unite è incommensurabile, anche se tragico…
Mr. Ito mi interruppe all’improvviso con voce fredda e scandita: — La prego di perdonare la mia crudezza nell’interrompere le sue osservazioni con una opinione politica, Mr. Harris, ma credo che la mia franchezza farà risparmiare a lei molto tempo e molti sforzi e a me un considerevole disagio.
Di colpo, era Shiburo Ito della Ito Freight Booster di Osaka, guida e ispirazione dell’economia della più potente nazione della Terra, e ora me lo stava dimostrando. — Rispetto pienamente la sua valutazione affettiva per le defunte Nazioni Unite, ma è un sentimento che non condivido. Le ricordo che le Nazioni Unite nacquero come alleanza delle nazioni che umiliarono il Giappone in una sfortunatissima guerra, e morirono sotto forma di un assemblea rissosa e stridula di nazioni impoverite e questuanti, unite solo nella disonorevole determinazione di estorcere aiuti internazionali dai paesi più avanzati, progrediti, autosufficienti e virtuosi, primo fra tutti il Giappone. Devo quindi far notare con rincrescimento che la vista di quegli edifici mi riempie solo di disgusto, per quanto essi possano avere una certa bellezza intrinseca come oggetti astratti.
Il suo viso era diventato una maschera lucente e lui sembrava lontano milioni di chilometri. Era il primo di questi pezzi grossi giapponesi che avessi visto avvicinarsi così all’ira; dentro di sé doveva proprio ribollire. Dannazione! Come potevo sapere che le Nazioni Unite avessero per lui tutti quei terribili significati politici? Per quel che ne sapevo io, le Nazioni Unite non avevano significato nulla per nessuno per molti anni, se non come ideale sciocco e vacuo che era stato ripreso dagli abitanti del Terzo Mondo, e poi era andato in frantumi. Proprio una fortuna che fossi incappato in uno dei pochi che ancora la condannavano!
— Lei è senza dubbio stanco, Mr. Harris — disse freddamente Ito. — Non la incomoderò più a lungo. Sarebbe meglio ritornare al suo ufficio ora. Se dovesse avere altri oggetti da mostrarmi, potremmo fissare un altro appuntamento in un giorno che sia comodo per entrambi.
Che cosa potevo dire? Lo avevo offeso profondamente, e poi non riuscivo a pensare a nient’altro da mostrargli. Portai il saltapicchio a centocinquanta metri di quota e mi diressi a cento chilometri all’ora verso il centro, sperando nonostante tutto di riuscire a escogitare qualcosa per salvare questo affare da un milione di dollari che rischiava di sfumare, prima di raggiungere il mio ufficio e di perdere per sempre questa gallina dalle uova d’oro.
Mentre ci dirigevano in centro, Ito fissava impassibile la lunga sequela di squallidi edifici allineati lungo la costa di Manhattan sotto di noi, senza degnarsi di parlare o di far cenno di accorgersi della mia miserabile persona. L’intensa luce rossastra che filtrava attraverso la cupola tramutava la sua faccia rotonda in un Sol Levante, uguale a quello della bandiera giapponese. Un’immagine appropriata. Il pazzo bastardo era proprio come il suo paese: un signore feudale suscettibile in politica, dotato di educata arroganza economica, con una sensibilità estetica estremamente raffinata, unita inesplicabilmente ad una brama da topo d’albergo per le più sciocche delle nostre vecchie paccottiglie. Un momento prima Ito appariva così superiore in tutto e in quello seguente era uno stupido ed infantile boccalone. Sono anni che tratto affari con i Giapponesi e ancora non li capisco a fondo. Tutto ciò che posso fare è azzardare qualche supposizione, che resta però sempre ai margini della loro vera realtà interiore, e sperare con quella di cogliere nel segno. E proprio questa volta, con un milione di yen o più che mi balenavano davanti agli occhi, avevo fatto cilecca per ben tre volte e me ne stavo tornando a casa con la coda tra le gambe in compagnia di un cliente insoddisfatto, il cui atteggiamento sembrava fatto apposta per farmi capire che ero una stupida e insulsa creatura, mentre lui era uno dei signori dell’universo!