Confabularono per un po’ e poi Lew disse: — Non tolleriamo alcun tipo di violenza qui, ma credo che Quilla June sia un modo come un altro di iniziare. È in grado, vero Ira?
Un uomo magro dalla pelle giallognola annuì. Non sembrava molto felice di quella prospettiva. Il vecchio di Quilla June, ci avrei scommesso.
— Va bene, cominciamo — dissi. — Mettetele in fila. — Accennai ad abbassare la cerniera dei jeans.
Le donne strillarono, gli uomini mi afferrarono, e si affrettarono a portarmi in una pensione dove mi diedero una stanza, e mi dissero che dovevo imparare a conoscere un po’ Topeka prima di cominciare a lavorare, perché era, uh, be’, ehm… imbarazzante, e loro dovevano fare in modo che gli abitanti della città accettassero quello che erano costretti a fare… partendo dal presupposto, credo, che se io funzionavo, bene, avrebbero importato qualche altro toro dalla superficie e gli avrebbero dato via libera.
Così passai un po’ di tempo a Topeka, imparando a conoscere la gente, osservando quello che facevano, come vivevano. Era bello, davvero bello. Si dondolavano sulle sedie nei porticati, rastrellavano i prati, ciondolavano ai distributori, infilavano monetine nei distributori di palline di gomma da masticare, dipingevano una striscia bianca in mezzo alla strada, vendevano giornali all’angolo, ascoltavano la banda in un palco a forma di conchiglia in mezzo al parco, giocavano al mondo e ai quattro cantoni, lucidavano le macchine, stavano seduti su di una panchina a leggere, lavavano le finestre e potavano le siepi, si toglievano le pagliette davanti alle signore, raccoglievano le bottiglie del latte vuote, strigliavano i cavalli, lanciavano un bastone ad un cane perché lo riportasse, si tuffavano nella piscina comunale, scrivevano con il gesso su di una lavagna il prezzo della verdura all’esterno di un negozio, camminavano mano nella mano con le più brutte ragazze che avessi mai visto e mi annoiavano mortalmente.
Nel giro di una settimana ero sul punto di urlare.
Sentivo quella latta di metallo che si richiudeva su di me.
Sentivo il peso della terra sopra di me.
Mangiavano merda artificiale; piselli artificiali e carne finta, polli contraffatti, granturco e pane artificiale e per me tutto aveva il gusto del gesso e della polvere.
Educato! Cristo, avrei potuto vomitare per quell’ipocrita stronzata che chiamavano civiltà. Salve Signor Tizio e Buongiorno signor Caio. Come state? E come sta la piccola Janie? E come vanno gli affari? Andrete all’incontro di Solidarietà, giovedì? E io cominciai a dare i numeri nella mia stanza alla pensione.
Quel modo dolce, grazioso, pulito e tranquillo in cui vivevano avrebbe potuto uccidermi. Non c’era da stupirsi se gli uomini non riuscivano a farselo venire duro e non erano capaci di fare dei bambini che avessero le palle invece di una fessura.
Alla fine cominciai a pensare al modo di andarmene da lì. Mi ricordai di quel barboncino che aveva dato da mangiare una volta a Blood. Doveva venire da un sotterraneo. E non poteva certo essere salito da uno scivolo. E questo voleva dire che c’erano altre uscite.
Mi lasciavano abbastanza libero di gironzolare per la città finché mi comportavo bene e non provavo a fare niente. Quella sentinella a forma di scatola verde era sempre nelle vicinanze.
Così scoprii una via d’uscita. Non fu un’impresa spettacolare; semplicemente doveva esserci, e io la trovai.
Poi scoprii dove tenevano le armi e fui pronto. Quasi.
VIII
Era passata una settimana quando Lew, Aaron e Ira vennero a prendermi. A quel punto ero proprio cotto. Ero seduto nel portico posteriore della pensione a fumare la pipa ed ero senza camicia, per prendere un po’ di sole. Soltanto che il sole non c’era.
Girarono intorno alla casa. — Buon giorno, Vic — mi salutò Lew. Camminava appoggiandosi ad un bastone. Aaron mi fece un gran sorriso. Del genere che si fa ad un grosso toro pronto a montare una bella mucca da riproduzione. Ira aveva un aspetto legnoso.
— Salve, come va Lew? Buon giorno, Ira, Aaron.
Lew sembrò molto compiaciuto del mio modo di fare.
Aspettate un poco, sporchi bastardi!
— Sei pronto ad incontrare la tua prima signora?
— Pronto come sempre, Lew — dissi e mi alzai.
— Bello fumare, vero? — disse Aaron.
Io mi tolsi la pipa di bocca: — Semplicemente delizioooso — sorrisi io. Non l’avevo nemmeno accesa, quella fottuta pipa.
Mi accompagnarono fino a Marigold Street ed arrivammo ad una casetta con le persiane gialle ed uno steccato di paletti bianchi. Lew disse — Questa è la casa di Ira. Quilla June è sua figlia.
— Niente male — dissi io con gli occhi spalancati.
Ira contrasse i muscoli della mascella.
Entrammo.
Quilla June era seduta sul divano con sua madre, una versione più anziana di lei stessa. Magra come un chiodo. — Signora Holmes — dissi, con un piccolo inchino. Lei sorrise. Un sorriso tirato, ma un sorriso.
Quilla June sedeva con le mani congiunte in grembo e le ginocchia unite. Aveva un nastro nei capelli, un nastro blu.
Andava d’accordo con i suoi occhi.
Qualcosa si agitò nel mio stomaco.
— Quilla June — dissi.
Lei alzò gli occhi: — Buongiorno, Vic.
Poi tutti ci fissammo più o meno imbarazzati, finché Ira cominciò a farfugliare di andare nella camera da letto e di farla finita con questa porcheria contro natura in modo che poi potessero andare tutti in Chiesa a pregare il Buon Dio che non ci-facesse-cadere-morti-stecchiti con un fulmine divino, o qualche altra fesseria del genere.
— Non hai detto niente, vero? — le chiesi.
Lei scosse la testa.
E tutto a un tratto non ebbi più voglia di ucciderla. Volevo stringerla. Molto forte. E lo feci. E lei pianse sul mio petto e picchiò i pugni sulla mia schiena e poi alzò lo sguardo e affastellando le parole, disse: — Oh Vic, mi dispiace, mi dispiace. Io non volevo, ho dovuto farlo, mi ci avevano mandato apposta, avevo paura, ma ti amo e adesso ti hanno portato qua sotto, e non è una cosa sporca, vero, non è come dice mio padre, vero?
La tenni stretta, la baciai e le dissi che andava tutto bene, e poi le chiesi se voleva venire via con me, e lei disse sì, sì, voleva davvero. Così le dissi che forse dovevo fare del male a suo padre per fuggire, e negli occhi le comparve un’espressione che conoscevo bene.
Con tutta la sua buona educazione, Quilla June non amava troppo quel padre biascica-rosari.
Le chiesi se non avesse in giro qualcosa di pesante, tipo un candeliere o una mazza, e lei disse di no. Così frugai nella camera da letto e trovai un paio di calzini del suo vecchio in un cassetto del comò. Tolsi le grosse palle di ottone della testiera del letto e le infilai nel calzino. Le soppesai. Oh, sì.
Lei mi guardava con gli occhi spalancati: — Che cosa vuoi fare?
— Vuoi uscire di qui?
Lei annuì.
— E allora mettiti dietro quella porta. No, aspetta un attimo, mi è venuta un’idea migliore. Vai sul letto.
Lei si distese sul letto. — Okay — dissi. — Adesso tirati su la gonna, togliti le mutandine e distendi le braccia. — Lei mi lanciò uno sguardo di puro terrore. — Fallo — dissi. — Se vuoi andartene.
Lei obbedì e io la sistemai in modo che avesse le ginocchia piegate e le cosce spalancate, poi scivolai accanto alla porta e le sussurrai: — Chiama tuo padre. Solo lui.
Lei esitò per un lungo istante, poi gridò con un tono che non aveva bisogno di contraffare: — Papà, Papà, vieni qui, per piacere! — Poi chiuse strettamente gli occhi.
Ira Holmes entrò nella stanza, diede un’occhiata, rimase a bocca aperta; io diedi un calcio alla porta e la chiusi dietro di lui, poi lo colpii più forte che potei. Barcollò, schizzando di sangue la coperta, poi cadde a terra.