Tornando a calcarsi i berretti sulla testa, i pescatori protestarono vigorosamente: «Un quarto di tutto quell’oro! Ma è… è…»
«Fino a questo punto è un quarto di nulla.»
«È un furto!»
«No» disse Lyo, cordialmente «è semplice avidità. L’oro mi piace molto. Prendere o lasciare. E ricordate: tre o quattro anelli da soli basterebbero ad arricchire l’intero villaggio. Non posso spingermi più di così.»
Altro silenzio.
«Un anello» grugnì qualcuno. «Un anello è per te. Il resto è nostro.»
Curva sul parapetto della barca, il mento appoggiato alle braccia, Fiord osservava il drago. Quella contrattazione sembrava divertirlo: volgeva pesantemente la testa a ogni nuova voce, attentissimo. Chi era, veramente? si chiedeva Fiord. Che cosa aveva visto il mago in quei suoi grandi, placidi occhi? Qualcosa che aveva a che fare con Kir?
Come poteva saperlo, il mago?
«Benissimo» lo sentì dire, alla fine. «Il primo anello è mio, e poi uno ogni cinque. Siamo d’accordo?» Aspettò. Alto nel cielo, un gabbiano lanciò un grido sgraziato. «D’accordo. E adesso… state zitti per un paio di minuti, non mi serve altro. Voglio solo… silenzio…»
Piano piano il “Riccio” si avvicinava al drago. Un’avanzata che appariva leggera, senza sforzi, eppure era contro corrente: guardando alle spalle di Lyo, Fiord vedeva all’opera una spinta magica.
Era intensamente concentrato: la pelle del viso sembrava sbiancare sotto l’abbronzatura. Gli occhi del drago erano diritti davanti a lui, portoni gemelli dal fuoco incessante, in cui il “Riccio” sembrava deciso a penetrare. Nel lucente riverbero dell’oro, gli occhi del mago ardevano come gemme.
La barca urtò adagio contro la catena. Non si levava un suono, intorno a loro, neppure di gabbiani. Lyo si protese verso il collo del drago, posò il palmo della mano sulla massiccia, sfavillante catena. Mano e faccia parevano trasfigurate: come se indossasse un guanto e una maschera d’oro.
E poi l’oro svanì. Fiord batté le palpebre, una volta, due volte. Era come se il sole fosse scomparso dal cielo. Il drago emise un suono, un rapido, sordo muggito; poi tuffò la testa sott’acqua, e si dileguò.
Tutt’intorno alle barche galleggiavano migliaia e migliaia di fiordalisi.
Capitolo sesto
«Oops… Scusate» fu l’unico commento del mago, e in un attimo anche lui si dileguò.
Un pescatore prese a bordo Fiord, provvedendo a rimorchiare il “Riccio”, e restò assorto in un tetro silenzio per tutto il viaggio di ritorno, fin quando ebbe ricondotto il “Riccio” al suo placido ormeggio. A quel punto sputò nell’acqua.
«Ci sono uomini nati per fare i maghi. E ci sono maghi nati per essere vermi da esca» disse, e cupamente lasciò la barca, diretto alla locanda.
Fiord legò il “Riccio” e si soffermò un momento sul molo, sentendosi come svuotata; nella testa le fluttuava un’immensa, azzurra foschia di fiordalisi. Niente più oro, e il drago scomparso…
«Fiordalisi» disse, e la sua stessa voce la fece trasalire. S’incammino verso la locanda, ma subito preferì cambiare strada: non aveva nessuna voglia di sentire i commenti di Carey in fatto di oro trasformato in fiori. C’era tutto il tempo, per quello, nei giorni futuri. Mesi, probabilmente. Ma dov’era andato il mago? si chiese.
E dov’erano spariti il drago e l’oro? Là dove finivano i sentieri di luce sul mare? Ne! paese celato sotto le onde? O in quel remoto paese chiamato memoria?
Sospirò. Nel chiaro, ventoso pomeriggio, ecco fuggita tutta la magia, proprio quando cominciava a credere che esistesse. E ora un brusio di voci le raggiunse l’orecchio, attraverso le acque del porto, dal molo dov’erano attraccate le belle navi della flotta regale.
Si fermò a guardare, sorpresa. C’era un gran movimento, su una delle navi: marinai che spazzavano il ponte, fischiettando; altri che caricavano a bordo casse e bauli e gabbie di galline bianche.
Qualcun altro era in partenza.
Continuò a guardare, tormentandosi i capelli tra le dita, sentendosi pungere gli occhi: «Bene, cosa ti aspettavi?» si disse, con voce così bassa e gonfia che non sembrava appartenerle. «Un cavallo che torna senza cavaliere, un principe che se ne arriva mezzo annegato… anche il più distratto dei padri non potrebbe fare a meno di notarle, quelle cose.»
Distolse gli occhi dalla nave e stancamente si trascinò via dal porto. A lungo vagabondò per le strade, fra i suoni pomeridiani del villaggio: cicalecci di donne attraverso i muriccioli degli orti, giochi di bambini tra gli alberi, grida, richiami. Il suo vagare la condusse, come sempre, al cancelletto di casa. C’era ancora la zappa, ritta fra le erbacce. Si fermò a guardarla, accigliata. Dov’erano i solchi, dov’erano le semenze per la primavera? Sua madre doveva pur nutrirsi.
Ignorando la faccia che appariva pallida e trasognata dietro i vetri, Fiord afferrò la zappa e attaccò le zolle ammorbidite dalla pioggia.
Diverse ore dopo, seduta sul muretto, esaminava il suo lavoro. Era sporca, sudata, le dolevano tutti i muscoli; aveva strisce di fango fin sui capelli. Ad un lato dell’orto si ammucchiava una grossa catasta di erbacce; e la terra smossa era pronta a ricevere patate, cavoli, carote, zucche. Il sole s’abbassava alle sue spalle, riempiendo l’orto di una luce pastosa, e la brezza marina le rinfrescava il viso accaldato. Per qualche tempo ignorò il mare, ma poi si arrese e si voltò. Le barche rientravano al porto, avanzando su una lunga striscia di fuoco d’argento.
Il cuore le doleva di nuovo, acutamente. Avvertì un tocco leggero sulla spalla: sua madre, in piedi dietro di lei. Rimasero ferme, in silenzio, l’arruffata testa di Fiord adagiata sulla spalla della madre. Il mare aveva attirato entrambe nel suo sogno, pensava Fiord, e forse non c’era modo di uscirne: prigioniere per sempre, all’inseguimento di un segreto che non era mai completamente reale né completamente illusorio.
«Vado.» Fiord scese dal muretto.
«Entra a mangiare, Fiord» disse la madre, sottovoce.
Lei scosse la testa: «Non ho fame. Procurati delle semenze, e verrò a piantarle.»
«Prima di andar via pensa a lavarti, per lo meno» insisté la madre, in tono più familiare.
Attingendo al barile dell’acqua piovana, Fiord riempì bacinelle su bacinelle, rovesciandosele sulla testa, sulle gambe, sulle braccia, finché fu perfettamente pulita. Poi, scrollandosi i capelli fradici, scivolò via attraverso il villaggio, diretta alla spiaggia.
Seguì la linea della risacca, senza mai guardare il mare tranne una volta: alzò gli occhi sulla luce accecante che affondava dietro le guglie, spargendo una pioggia d’oro sulle acque vuote. Riabbassò la testa, arrancando nella sabbia verso la capanna. Apri l’uscio e trovò Kir, seduto su uno sgabello coi piedi sul davanzale, che osservava il tramonto.
Vedendola ferma sulla soglia le andò incontro. Senza parlare, le mise le braccia intorno alle spalle; dopo un momento, le mani di Fiord salirono timide a toccargli la schiena. Chiuse gli occhi, e sentì che le carezzava i capelli.
«Sei bagnata tu, questa volta» commentò Kir.
«Ho lavorato nell’orto.»
«Oh!» Trasse un lungo sospiro; si sciolse dall’abbraccio, fissandola col suo strano sguardo, chiaro, implacabile. «Sto per partire. Sarò via qualche tempo.»
«Lo so» bisbigliò lei. «Ho visto la nave.»
«Mio padre…» s’interruppe; un muscolo gli si contraeva sulla mascella. «Mio padre mi porta in visita da certi nobili, nelle Isole del Nord. Hanno una figlia.»
«Oh.»
«Tornerò.»
«Sei sicuro?»
Gli occhi di Kir lasciarono il suo viso, rivolti all’ultimo tremolante sentiero di luce che ancora attraversava il mare. «Tornerò. E tu lo sai, perché» mormorò. «Lo sai.» Le sfiorò la bocca con le labbra: erano fredde, e tuttavia Fiord sapeva che le stava dando proprio tutto il suo calore. «Se potessi amare qualcuno, amerei te. solo te» aggiunse, in un bisbiglio. La vide sorridere. «Lo trovi così strano?»