Fiord rabbrividì di nuovo: come in un lampo, intuiva i complessi, misteriosi eventi che avevano imprigionato questo figlio di re dietro quei grandi occhi inumani, dentro quel corpo che aveva filamenti al posto delle dita, pinne al posto dei piedi, ed era coperto di squame, dimora per ogni crostaceo di passaggio. «Laggiù in fondo al mare, nessuno ti aveva mai toccato?» bisbigliò. «Come hanno potuto… come hanno potuto fare questo a te e Kir? Cos’è che può indurre la gente a fare queste cose?»
Lui l’ascoltava così come, in mare, il drago ascoltava i pescatori: attento a ogni modulazione della voce, a ogni mutamento di tono. Avvertendo una nota più intensa, colse inaspettatamente una parola nuova.
«Kir» ripeté.
Fiord si torturava i capelli tra le mani, profondamente incerta: «Dovrei portarti dal re…» disse, e fu inorridita all’idea. «Ma come… come posso entrare neìia sua grande casa insieme a te, nel cuore della notte, e spiegargli… io, Fiord, quella che lava i pavimenti alla locanda… che tu sei il suo figlio umano e Kir il suo figlio marino… No, non posso. E non potrei comunque…» aggiunse, con enorme sollievo «… il re è andato via con Kir!… Lyo. Lyo può suggerirmi cosa fare di te!» Il drago ascoltava paziente, battendo i denti. Fiord gli mise un braccio intorno al corpo, l’aiutò ad alzarsi. «Se non altro, posso trovarti una coperta. Riesci a camminare? Non molto bene, vero? Ma non c’è da stupirsi: sei appena nato.»
Lo condusse alla capanna, l’avvolse in una vecchia trapunta e riattizzò il fuoco sotto un paiolo di zuppa d’ostriche. La luce delle fiamme gli balzò sul viso, riempiendolo di stupore. Aveva i capelli d’oro come la catena del drago e gli occhi azzurri, sotto sopracciglia bionde. Come Kir, era alto, snello, ampio di spalle; come il drago, era in costante movimento. Continuò a camminare avanti e indietro per la stanza, mordicchiando una fetta di pane. Si bruciò le dita sul fuoco, si punse con un ago, sussultò a vedersi nello specchio, inciampò in un lembo della coperta, e lasciò cadere tutto quel che prendeva in mano, compreso il pane e la ciotola di zuppa. Fiord lo convinse a sedersi, alla fine, gli strinse le dita intorno ad un cucchiaio, e gl’insegnò a mangiare. Il suo primo boccone di zuppa — latte caldo, ostriche, burro fuso, sale, pepe — parve meravigliarlo enormemente; davanti alla sua espressione stupefatta, Fiord scoppiò a ridere. Un sorriso di risposta gii guizzò sul viso, riflettendo il sorriso di Fiord. Era un sorriso sorprendentemente diverso da quello di Kir: gaio e dolce, e privo di ogni amarezza. Fiord rimase a fissarlo, silenziosa, dimenticando di mangiare. Lui aspettava, allarmato dal suo silenzio, ma curioso e paziente com’era stato il drago, quando affiorava dalle onde e protendeva il suo corpo massiccio fra le barche dei pescatori, per ascoltarli.
«Mi chiedo se tu abbia mai avuto un nome» bisbigliò infine Fiord. «Mi chiedo come ti chiamava tua madre, prima di morire. Devi assomigliarle molto. Mi chiedo se in fondo al mare ti abbiano mai tolto la catena, ti abbiano mai fatto riprendere la tua forma d’uomo… Mi chiedo se ti abbiano mai insegnato qualcosa, foss’anche un semplice “sì” e “no”.»
«Sì e no» ripeté il drago, prontamente. «Buio e luce, sole e luna, giorno e notte; dentro e fuori van pel mondo, zitti zitti in girotondo.»
«Oppure ti han tenuto in catene fin dal giorno che sei stato sottratto alla tua culla? È davvero la prima volta che torni ad essere umano?»
«Umano.»
«Come me. Come i pescatori.»
Era così assorto a seguire le sue parole, a scrutare ogni movimento delle sue labbra, che dimenticò di avere la ciotola: la teneva inclinata in avanti e Fiord dovette raddrizzargliela tra le mani, prima che ne rovesciasse il contenuto. Lo persuase a mangiarne qualche altro cucchiaio. Aveva gli occhi gonfi di stanchezza: la fatica di uscire dal mare doveva averlo stremato. Mangiò lentamente, la testa ciondoloni, e di colpo, posata la ciotola, ruzzolò giù dalla sedia. Fiord lo fece sdraiare su una coperta stesa accanto al fuoco: e già dormiva, quietamente, prima ancora che gli gettasse addosso un’altra coperta.
Restò a guardare la luce del fuoco che stendeva braccia protettive su di lui. “Due volte in un solo giorno” pensò “due principi sono entrati in casa mia. Uno nero, uno luminoso, uno il giorno, uno la notte…” Anche lei era esausta, e si lasciò cadere sul letto senza neppure spogliarsi.
Si svegliò nel buio, al rombare dell’alta marea; attraverso la soglia, i raggi della luna formavano una pozzanghera di luce. Sorpresa, guardò l’uscio aperto: cigolava, e d’improvviso si chiuse con un tonfo, facendola trasalire.
Vide le coperte sparpagliate davanti al focolare, vuote. Era sola. Scese dal letto e andò alla finestra: la luna inondava il mare di un bagliore lattiginoso, abbacinante. Battendo le palpebre, Fiord aguzzò lo sguardo, e infine lo vide: il drago, in un turbinio di filamenti, prendeva il sentiero argentato tra le guglie per tornare ai suoi abissi.
Quel giorno, alla locanda, lavorò come ubriaca. Carey continuava a parlare della catena d’oro e a lamentarsi di averla perduta per sempre, e le sue incessanti recriminazioni finirono per diventare, alle orecchie di Fiord, un rumore di fondo mescolato alle stridule voci dei gabbiani. Anche Marli, con tutto il suo buon senso e il suo umorismo, appariva arrabbiata.
«Come ha potuto essere così stupido?» ripeteva Carey. «Com’è possibile che uno capace di trasformare l’oro in quel che vuole, l’abbia trasformato in una dannata distesa di fiordalisi? Tutto quell’oro, Marli!… Fiord, tu eri con lui. Ti è passato per la mente che potesse fare una cosa tanto idiota?»
Fiord scosse la testa, reprimendo uno sbadiglio. Carey si piazzò davanti a lei, come ad esigere qualcosa, una parola di spiegazione, di speranza; non ricevendo nulla, fece un sospiro esasperato e si volse a fissare la finestra. «Credo proprio che scapperò via di qui» disse.
«Oh, per favore!» sospirò anche Marli. «Smettila una buona volta di blaterare su quell’oro! È sparito, finito, chiuso! Ne abbiamo fatto a meno fino adesso, no?, e se avere una vita tranquilla non ti rende felice, non credo che ci riuscirebbe la ricchezza, visto come sei fatta.»
«Ma anche a te dispiace, ammettilo.»
«D’accordo, mi dispiace. Sarebbe fantastico non dover strofinare pavimenti e ascoltare le tue lagne tutti i santi giorni. E se intendi andartene, fallo, ragazza mia, per amor del cielo, e dacci un po’ di pace!»
«Benissimo, lo farò» sbottò Carey. Fiord alzò gli occhi a fissarla: c’era in lei un atteggiamento così teso, così rigidamente freddo, che le faceva ricordare la disperazione di Kir, la sua rabbia impotente.
«Non andartene» mormorò. Carey posò su di lei il suo sguardo infelice, furibondo. «Forse tornerà. È un mago. Ha grandi poteri.»
La rabbia si dileguò dal viso di Carey. Si avvicinò a Fiord, le strappò di mano la scopa: «Sì, hai ragione. Se ha potuto trasformare l’oro in fiordalisi, perché non può ritrasformarli in oro? Può, non è vero? Se solo potessimo trovarlo, se solo potessimo chiederglielo…»
«Quei fiori saranno già finiti nelle Isole del Sud, a questo punto» obiettò Marli. «E così il mago, se ci tiene alla pelle. Li hai sentiti i pescatori, ieri, quando sono venuti qui: se avessero potuto acciuffarlo, l’avrebbero messo in un barile di birra e scaraventato in mare.»
«Ma…» insisté Carey, caparbia.
«Ma cosa?»
«La magia era reale. Era reale, Marli!» riprese ancora Carey.
Marli aggrottò la fronte, incerta. Fiord chiuse gli occhi, col pazzo desiderio di acciambellarsi sotto il tavolo e farsi una dormita; le balenò nella mente la figura del drago che solcava le onde luminose. E mentre risentiva la sua voce — sì e no, buio e luce — per un attimo afflosciò la testa sulla scopa, rialzandola poi di scatto.