«È triste.»
«Sì, molto triste.»
«Il drago non ha neppure un nome» Fiord si mise a bucherellare le patate con la punta del forchettone, meditando su quella storia incredibile. Lyo l’osservava, un sorriso segreto negli occhi. «Vorrei che il re e Kir tornassero. E allora…» abbassò il forchettone. «Che cosa dirà, Kir? Non ha una casa, né sulla terraferma né dentro il mare. E il drago… è umano solo per qualche ora della notte…»
«Uno strano paio di figli, per un re.»
«Lyo, devi fare qualcosa.»
«La sto facendo» si chinò di nuovo sulla padella. «Intendo finire la tua cena.»
Si distribuirono i compiti: Lyo insegnava al drago durante il giorno; e di notte, quando il drago usciva dal mare per venire alla capanna, Fiord gli faceva ripetere le parole che aveva apprese, e gliene insegnava di nuove.
Il ritmo delle sue giornate s’era fatto così singolare che le sembrava di vivere in una sorta di sogno, dove le cose si confondevano in un unico impasto. Certe volte, mentre rovesciava secchi d’acqua saponata sul pavimento della locanda, si sorprendeva a borbottare “strofinaccio”, oppure “sapone”; e continuamente le ronzavano nella testa brani di filastrocche infantili.
Una mattina Carey si presentò al lavoro con una quantità di pettegolezzi freschi freschi: «Ho saputo che il re ha portato Kir alle isole del Nord per fargli sposare la figlia di un aristocratico locale.»
Fiord era assorta a contemplare una gigantesca bolla di sapone, in cui tremava un arcobaleno. Cercò di immaginarsi Kir sposato; immaginava la sua frustrazione, il suo panico, e si sentì percorrere come da un nero soffio di vento. Poteva anche sposarsi, ma non avrebbe mai saputo amare: e ci sarebbe stato un secondo bambino, intrappolato in un mondo non suo e desideroso di un altro. E un’altra giovane donna, crudelmente tradita dal mare. La bolla scoppiò. La storia si sarebbe ripetuta, ancora e poi ancora…
«Dov’è che l’hai sentito?» chiese Marli.
«Da una delle sguattere di cucina. Stava portando la cena a dei clienti, e li ha sentiti conversare. Dicevano che Kir era irrequieto e infelice, e il re pensava che il matrimonio l’avrebbe messo tranquillo.»
«Povero Kir!» disse Marli. Sorpresa, Fiord alzò gli occhi dal caminetto che stava pulendo.
«Perché dici così?»
«Perché non c’è magia in un matrimonio del genere. Certo, se poi si amassero, sarebbe diverso. Ma è ben difficile che le teste coronate facciano matrimoni d’amore. Devono sposare il potere, o la ricchezza, o la terra…»
«Be’, quello l’ottengono, se non altro» commentò Carey, mestamente.
Marli scoppiò a ridere: «Oh, Carey! Sei impossibile!»
«È più forte di me» ribatté Carey, ostinata. «Voglio diventare ricca. Voglio l’oro di quel drago. Solo allora sarò felice.»
Fiord cenò da sola, quella sera, e s’infilò a letto subito dopo il tramonto. Il drago la ridestò dai sogni per immergerla nel ruggito del mare, col vento che sbatacchiava l’uscio.
«Padella» gli insegnò «parete, cucchiaio, pane, sale.» Quando la casa non ebbe più oggetti da nominare, passò ad insegnargli delle frasi: «Ho fame. Ho sete. Dove sei? Sono qui. Cosa stai facendo? Mescolo le cipolle in un tegame, mi pettino i capelli…» Via via che la notte passava e il drago divorava parole come gamberetti, trasformarono la lezione in un sorta di gioco.
«Cosa stai facendo?» le chiese il drago, vedendola bere.
«Bevo dell’acqua. E tu cosa stai facendo?»
Il drago andò alla porta: «Apro la porta. E tu cosa stai facendo?»
«Metto legna sul fuoco. E tu cosa stai facendo?»
«Guardo le tue conchiglie. E tu cosa stai facendo?» chiese ancora, guardandola con un’espressione così buffa che Fiord si mise a ridere.
«Saltello su e giù. E tu cosa stai facendo?»
«Cammino a te.»
«Verso di te» lo corresse.
«Cammino verso di te. E tu cosa stai facendo?»
«Saltello ancora. E tu cosa stai facendo?»
«Cammino più vicino verso a te.»
«Più vicino a te.»
«A te. Più vicino. Sempre più vicino.»
Fiord s’irrigidì, silenziosa, guardandolo venire: drago in corpo di principe, con l’oro nei capelli e la luce del fuoco che gli scivolava sul viso.
«Vengo vicino. Molto vicino. Fiord deglutì:» Molto vicino.
«Ora ti sto toccando» le mise le mani sulle spalle. E Fiord vide nei suoi occhi una tale necessità di calore che lo cinse tra le braccia. «Ti sto toccando.»
«Sì» mormorò lei, e avvertì il lungo sospiro che gli attraversava il corpo. «Mi stai toccando.»
Lo guardò addormentarsi davanti al fuoco, così innocente e smarrito, e la sua solitudine le diede un gran senso di pena. Come Kir, era legato al mare — col corpo se non col cuore — e a lei era impossibile amarlo quanto le era impossibile amare suo fratello, che aveva corpo d’uomo ma in cuore un terribile desiderio di inseguire la marea.
«Oh, Lyo!» bisbigliò. «Cosa dobbiamo fare?»
Ma nessuna risposta le venne dal mago, addormentato chissà dove.
Capitolo ottavo
Poi il mare, forse perché gli mancava il suo oro, cominciò a giocare strani scherzi ai pescatori. Il primo episodio io raccontò Enin, venendo una sera alla locanda con un Tull Olney stralunato che si trascinava dietro di lui. Pallidissimo, fradicio dalla testa ai piedi, gli occhi arrossati dall’acqua, Enin si fermò al bancone del bar a tracannare una birra dopo l’altra, come se dovesse togliersi strati di sale dalla gola. E Tull appariva altrettanto malconcio. Fiord, che saliva dalla cucina con una grossa pagnotta appena sfornata, si bloccò sull’ultimo gradino a sentire le parole di Tulclass="underline" «Succede qualcosa di strano, nel mare.»
«Nella tua testa, se mai!» lo rimbeccò Enin. «Datemi un’altra birra.»
«Li hai sentiti anche tu, i canti!»
«Ho sentito qualcuno che strombazzava in una conchiglia. Tutto qui» si rivolse agli altri pescatori, nonché all’oste e a Marli, che era scivolata nella stanza sentendo la sua voce. «Tull e io stavamo fuori a pesca, con le barche vicine. Lui dice di aver sentito cantare, io dico che era una conchiglia…»
«Un canto!» borbottò Tull da dietro il suo boccale.
«Era un suono profondo, pastoso, voi sapete come. Una conchiglia, insomma, di quelle che usano nei villaggi del nord per chiamare a raccolta i pescatori. Be’, subito dopo ho sentito un tonfo. Mi volto, ed ecco Tull che nuotava a tutto spiano, con tanto di stivali addosso, all’inseguimento di una foca!»
«Non era una foca!»
«L’ho chiamato, ma lui niente, sempre dietro la foca. Poi quella si è immersa, e Tull si è trovato ad annaspare nell’acqua con gli stivali che lo tiravano giù. Be’, indovinate un po’ chi ha dovuto tuffarsi per riportarlo indietro?» tracannò un lungo sorso di birra, gettando a Tull un’occhiataccia. Ma dietro quello sguardo feroce Fiord vide un’ombra di paura.
Tull sbatté il boccale sul bancone: «Era un canto. E quella era una donna!»
«Una foca, ti dico! Una foca bianca…»
«Una donna con i capelli bianchi e…»
«E gli occhi scuri.»
«E gli occhi scuri.» Tull si guardò intorno nella stanza improvvisamente silenziosa. Sembrava allucinato «Cantava. Era una creatura piccola, graziosa, bianca come una conchiglia, e giocava nell’acqua come se fosse il suo elemento naturale. Mi ha spruzzato d’acqua, ridendo, e io… Come ha detto Enin, mi son tuffato a capofitto senza preoccuparmi di niente, neanche fossi una foca…» rabbrividì. «Poi lei è svanita, lasciandomi tutto solo nell’oceano vuoto. Il suo canto… non so… sembrava che venisse da un sogno dove io volevo a tutti i costi entrare. Ho cominciato a ingollare acqua… era come se cercassi di bere il mare… e poi Enin mi ha tirato su.»