«Andarmene?» disse, vagamente, in ginocchio nell’acqua saponata.
Marli la guardava aggrottando la fronte: «Sono mesi che non ti vedo sorridere. A malapena apri bocca. Non fai altro che fissare con odio le onde, tutte le volte che passi davanti a una finestra. Potresti trasferirti all’interno, nei villaggi dei contadini. O addirittura in città. Sarà magari un’isola, questa, ma non mancano i posti dove il mare non si sente neanche.»
Fiord volse la testa di scatto, come a respingere la voce bonaria di Marli e il suono della marea incombente.
«No!» rispose seccamente, senza saper bene perché.
Carey fece una risatina: «Te la immagini Fiord in città? Con le sue sottane troppo corte e i capelli che sembrano ciuffi di alghe secche? Fiord le scoccò un’occhiata truce.»
«No» sospirò Marli. «Davvero non ce la vedo. Fiord, dovresti proprio…»
«Lasciatemi in pace!»
«Ma, ragazza mia, tu sembri…»
«So benissimo cosa sembro!» sbottò lei, anche se non ne aveva la più pallida idea.
«Chi potrebbe innamorarsi di te, con l’aspetto che ti ritrovi?» ridacchiò Carey.
L’occhiataccia di Fiord si mutò in uno sguardo così stupefatto che entrambe scoppiarono a ridere. In quel momento l’oste s’affacciò nella stanza.
«Vi voglio al lavoro nelle ore di paga» grugnì. «Nelle ore libere ridete quanto vi pare.»
«Vecchio brontolone!» sbuffò Carey.
«Ha ragione Carey» insisté Marli. «Hai due occhi così belli, Fiord! Ma nessuno può vederli, con i capelli come…»
«Non voglio che nessuno li veda!» l’interruppe Fiord. «Lasciatemi in pace, ho detto.»
Ma quella sera, alla capanna — dopo aver preparato un impasto di cocci e schegge di vetro e seghettati frammenti di conchiglie da gettare nel mare, per procurargli un’indigestione — Fiord prese dallo scaffale delle fatture un vecchio specchietto incrinato e si esaminò con una certa curiosità. Da sotto un cespo di capelli ispidi e sporchi, colse lo sguardo di due grandi occhi grigi punteggiati d’oro. A stento riconobbe la propria faccia: il naso troppo grande, le guance scavate, la bocca imbronciata. Un’estranea che abitava nel suo corpo.
«Che me ne importa» mormorò, abbassando lo specchio. Poco dopo lo riprese e si guardò un’altra volta. Tornò a posarlo, accigliata. Poi uscì dalla capanna e raggiunse una piccola macchia di ginestroni, dove la vecchia aveva scoperto un ruscello sotterraneo che serpeggiava verso il mare, e aveva scavato una buca per intrappolarlo. S’inginocchiò sul bordo del pozzo e tuffò la testa nell’acqua. Rabbrividendo rientrò nella capanna e gettò altra legna sul fuòco. E lì rimase, per oltre un’ora, a tirarsi i capelli con una spazzola fino a scioglierne tutti i nodi. A quel punto erano asciutti, ma continuò a spazzolarli, stanca e mezzo addormentata, finché le scivolarono crepitando sulle spalle, in una morbida massa striata di luce e buio. Ricordò che tanto tempo prima, quand’era piccola, la vecchia le spazzolava i capelli cantando:
Fiord udì la propria voce che cantava nel silenzio. S’interruppe bruscamente, sorpresa, e udì allora il sottile, frusciante sussurro della marea che inondava la spiaggia. Strinse le labbra. Posò la spazzola e prese una pallottola di creta, trafitta di vecchi chiodi e frammenti di vetro come un puntaspilli. Spalancò l’uscio, e la luce del fuoco le guizzò davanti, scivolando sul gradino. Qualcosa, in fondo alla spiaggia, la fece indugiare sulla soglia, perplessa.
C’era una strana massa d’ombra lungo la battigia. Aggiustando gli occhi al chiarore lunare, Fiord cominciò lentamente a ricomporne i pezzi, la testa di un cavallo, nera contro lo scintillio delle onde; un lungo mantello scuro, qua e là luccicante di fili argentati, o acciaio, o perle… Non distinse nessuna faccia. Poi il misterioso cavaliere sentì il suo sguardo. D’improvviso un volto pallido, dai lineamenti confusi, si volse verso di lei, ancora immobile nella luce delle fiamme, i piedi nudi e la chioma che le fluiva leggera sulle spalle, come una nube aureolata di fuoco.
I due si fissarono a vicenda, attraverso la spiaggia. Poi il cavallo ebbe uno scarto, investito da un veloce ricciolo d’onda, e il cavaliere scostò il mantello per liberare le braccia (di nuovo quel luccichio… qualcosa di ricco, di insolito). Un colpo di redini, e il cavallo uscì dal mare, allontanandosi. Fiord richiuse la porta.
«Il re è tornato nella sua residenza estiva!» annunciò Carey, trafelata, la mattina dopo. Le ragazze erano nel ripostiglio sul retro, a infilarsi i grembiuli e a prendere secchi e scope. «Ho visto le sue navi nel porto.»
Sbadigliando, con le dita che s’impigliavano nei legacci del grembiule, Fiord mugugnò stizzosamente.
«È presto!» commentò Marli, stupita. «Siamo appena in primavera. La stagione delle piogge non è ancora finita!»
«C’è anche il principe Kir.»
«Come io sai?»
«Ho chiesto a un marinaio.» Gli occhi di Carey brillavano. Strinse il secchio tra le braccia, in preda a chissà quali fantasticherie. «Pensa a quanti bei vestiti, e gioielli, e cavalli, e giovanotti…»
«Pensa al lavoro, piuttosto…» sospirò Marli «… se restano qui finché finisce l’estate!»
«Non me ne importa!»
«Gioielli?» ripeté Fiord, mentre le tornava in mente un’ombra nera luccicante di luna.
«Ragazze, volete svegliarvi?» Impaziente, Marli afferrò il grembiule di Fiord, annodandole i legacci. «Questo posto sarà pieno zeppo, prima che venga notte!»
Già i primi stranieri erano nella locanda, a lasciare impronte di sabbia sui pavimenti, a esigere i caminetti accesi, a far confusione. Alla fine della giornata le ragazze erano troppo esauste per parlare. L’oste incontrò Fiord nel retrocucina e le diede delle ostriche da portare a casa; la studiò un attimo, inarcando le sopracciglia: «Ti sei lavata i capelli!»
Era poi così sorprendente?, si chiese Fiord, seccata, mentre infilava una viuzza del villaggio. Un momento dopo non ci pensava più. Stava scavalcando un muricciolo che dava sul cortile di Marl Grey: voleva infilargli dei sassolini aguzzi nelle tasche posteriori dei calzoni da pesca, stesi ad asciugare sul filo del bucato. Un paio di giorni prima il ragazzo l’aveva presa in giro, deridendo i suoi capelli in disordine, le sue sottane troppo corte.
«Vedremo come sarai buffo tu» borbottò tra i denti «quando ti siederai nella barca con questa roba.»
Poi andò a casa della madre. Non che l’avesse deciso di sua volontà: ci si era avviata quasi inconsciamente, passo dopo passo, attraverso il villaggio. Non voleva andarci. Odiava la casa silenziosa nell’ora in cui rientravano i pescherecci. Per quanto aguzzasse gli occhi, non avrebbe visto la barca azzurra di suo padre, che dondolava pigramente in fondo al molo, vuota, come sempre. E tuttavia Fiord sapeva che avrebbe guardato. Apri il cancello del giardinetto. Una zappa era appoggiata al muro, fra tormentate zolle di terra; già cominciavano a spuntarvi i cardi.
Entrò in casa, rovesciò le ostriche sul tavolo e sedette in silenzio accanto al fuoco. Una zuppa di pesce bolliva piano in un paiolo. Sua madre sedeva alla finestra, a scrutare il porto illuminato dal sole del tramonto. Volse la testa per un attimo, disturbata dal crepitare delle ostriche sul tavolo, ma subito la sua attenzione dileguò. Rimasero sedute a lungo, senza muoversi, senza parlare. A un certo punto la madre alzò una mano, ma subito la lasciò ricadere in grembo, sospirando. Poi si alzò a mescolare la zuppa.
«Il re è tornato» disse Fiord, bruscamente, spinta da un insolito bisogno di dire qualcosa. Inoltre, scoprì con sorpresa, voleva sentire la voce di sua madre.