«Chiamare o essere chiamati» diceva la formula. Poi: «Sono molti i sentieri che conducono ai mare. Il sentiero della marea, il sentiero della foce, il sentiero della luna. Può essere imitato il sentiero a spirale che disegna il guscio del nautilo. Chiamare o essere chiamati, ricevere o dare risposta. Per chi viene invitato, il sentiero apparirà chiaro ai suoi occhi. Per gli altri, voi, che avete certe conoscenze, che avete certi poteri, voi che per scopi disinteressati volete discendere negli abissi del mare: è imperativo che siate pronti ad offrire un dono. Il dono dev’essere prezioso — o sembrare prezioso — quanto la vita del viaggiatore. Deve valere la sua vita. Una tale offerta può rendersi necessaria, per poter tornare al tempo dell’uomo…».
«Io non voglio tornare» mormorò Kir. Cominciava a scoraggiarsi.
«Aspetta» disse Fiord. Continuò a leggere, affascinata: ««Possedendo un tale dono, il viaggiatore deve trovare il sentiero della luna piena sull’acqua dell’alta marea, nel punto dove il sentiero della luna incontra la terra». Ma non c’è luna piena, adesso…» aggiunse Fiord.
«Manca poco. È luna di tre quarti.»
««Qui il viaggiatore deve esibire il suo dono e poi, con voce chiara e cortese, chiederà al mare di concedergli l’ingresso. Il consenso può essere dato da un cavallo nero che emerge dalla spuma, e il viaggiatore dovrà salirgli in groppa; o da una foca bianca, che il viaggiatore dovrà seguire; o dalla stessa regina del mare, che guiderà il viaggiatore fino al paese sotto le onde. Il dono dovrà essere offerto al momento più opportuno, per averne in cambio un sicuro ritorno. È un viaggio gravido di rischi e pericoli, e non è consigliato se non quando siano esaurite tutte ie possibili alternative.»»
«Un dono» ripeté Kir, cupamente.
«Già gliel’hai offerto, un dono: l’anello di tuo padre.»
«Non valeva la mia vita. E lei l’ha reso.»
«Una volta hai cercato di darle la tua stessa vita!» proruppe Fiord. Gli occhi le si riempirono di lacrime, a ricordare la disperazione di quella notte.
Kir fissava il fuoco; nel suo volto pallidissimo si leggeva una sconfinata amarezza.
«Forse lei non mi vuole» disse.
«Io credo di sì. Secondo Lyo…»
«Come puoi saperlo?» esplose Kir. «Come potete saperlo, voi due?»
Allarmato dalla sua voce vibrante, il drago sussurrò: «Cosa stai facendo?»
Kir tacque. Fiord si allontanò dal tavolo, tormentandosi i capelli tra le dita; improvvisamente si chiese se avesse capito qualcosa della madre di Kir, del mondo in cui dimorava. Il suo sguardo cadde sullo scaffale dei sortilegi: come spinta da un impulso disperato, afferrò le ghirlande rese dal mare, e le sparse sulla pagina che Kir stava leggendo.
«Guarda! Quando ho detto il tuo nome, tua madre me le ha restituite. Devono pur significare qualcosa! Devono!»
Kir fissò con stupore la ragnatela di perle e cristallo e raggi di luna intrecciata ai vecchi sterpi e steli d’alga. Ne sollevò una: l’imperlava una rugiada di fuoco. Il tondo cristallo nel centro fiammeggiava come l’occhio del drago.
«Cosa sono?» mormorò.
«I miei malefici. Le ghirlande con cui volevo maledire il mare.»
«Sono bellissime! Come hai fatto…»
«È lei che l’ha fatto. Io le avevo legate con filo nero, e tua madre le ha riempite di magia…» le mancò il respiro. «Oh, Kir, guarda!»
Tutt’intorno a loro, sulle pareti e sul soffitto, il riflesso della ghirlanda tremava come una grande, scintillante ragnatela di fuoco.
Il drago ansimava, sgomento e affascinato.
Lentamente, Kir girò la ghirlanda nella mano: e la ragnatela ruotò intorno a loro. Aprì le labbra, in muta esclamazione. Poi, con l’altra mano sfiorò uno dei fili e ne percorse il tracciato: e l’ombra delle sue dita seguì il fiammeggiante disegno riflesso sul muro.
«Ma cosa…» bisbigliò. «Ma come…?»
Si sentì bussare. Due rapidi colpi.
Di scatto volsero gli occhi sull’uscio, ansiosi, smarriti, come se quei colpi venissero da un altro mondo. L’uscio si apri. E il re varcò la soglia, penetrando nella ragnatela di fuoco.
Capitolo undicesimo
Si fermò bruscamente, nel vedere le loro facce silenziose, luccicanti di fuoco. Era vestito con semplicità: un lungo mantello di lana scura che nascondeva abiti più scuri. Ma nulla poteva dissimulare il suo corpo possente, la fierezza della testa, la figura maestosa. A Kir aveva dato i suoi capelli neri, le sopracciglia arcuate come ali, i lineamenti del volto, e l’espressione, perfino: ma i profondi occhi grigi erano colmi di un’umanità che Kir non possedeva. E ora il suo sguardo correva da Fiord a Kir, per poi posarsi sul drago. Trame d’ombra e di fuoco guizzavano sui capelli d’oro del giovane, sui chiari occhi azzurri: il re chiuse gli occhi, come sopraffatto dal tormento.
Dietro di lui apparve Lyo. Per un attimo il suo sguardo indugiò, estatico, a contemplare l’arabesco di fuoco che palpitava sulle pareti; poi vide il libro degli incantesimi aperto sul tavolo, e i suoi occhi si volsero a Fiord, in muta, sorpresa interrogazione. Kir lasciò cadere la ghirlanda che ancora teneva in mano, e la ragnatela si dissolse.
Si alzò in piedi; e così fece il drago. Rannicchiata vicino al focolare, Fiord avrebbe voluto che un incantesimo la facesse scomparire tra le pagine del libro. Kir e il padre si guardavano in silenzio, come se non trovassero le parole.
Finalmente il re parlò: «Il mago mi ha detto che ti avrei trovato in questa casa. È qui che tu vieni, dunque.»
«A volte vengo qui…» s’interruppe, la gola riarsa. «E a volte vengo solo per guardare il mare.»
Il re annuì, di nuovo silenzioso. I suoi occhi si posarono sul drago, sbalorditi, increduli. Kir strinse i pugni, e Fiord vide un improvviso dolore invadergli il volto.
«È tuo figlio» disse, aspramente. «Il tuo vero figlio. Prendilo con te, e rendimi al mare.»
Il re tacque ancora, immobile. Poi, in due passi, raggiunse Kir e lo prese per le spalle: «Anche tu sei mio figlio!» lo scosse leggermente con le grandi mani; poi allentò la stretta. «Sei così simile a tua madre…» aggiunse, con voce roca. «Così simile! Ho cercato di non vederlo, in tutti questi anni. Non capivo come fosse possibile. Hai i suoi occhi. Ogni volta che ti guardavo, vedevo il suo viso. E tuttavia… com’era possibile?» Guardò di nuovo il drago. «E questo, quest’altro figlio, ha il volto della giovane regina, la donna che ho sposato e che cominciavo appena a conoscere, quando morì.»
Inquieto, il drago si avvicinò a Kir: quell’improvvisa, sconcertante tensione sembrava metterlo a disagio. Gli occhi del re si muovevano increduli dall’uno all’altro giovane — uno biondo, uno bruno — entrambi riflessi di un confuso passato.
«Cosa stai facendo?» azzardò il drago, e il re ebbe un sussulto.
Intervenne Lyo, delicatamente: «Non conosce ancora molte parole. Fiord gliene insegna ogni notte, quando assume la forma umana.»
«Perché solo di notte?» domandò il re. «Perché continua a tenerlo in quella forma di mostro? C’è un prezzo da pagare, per portarlo via dal mare? C’è un prezzo?»
Lyo attraversò la stanza, sedendosi accanto a Fiord: «Non lo so» si limitò a dire. «Penso che dovrebbe chiederlo a lei.»
Il re afflosciò le spalle, come sopraffatto dalla stanchezza; d’improvviso appariva smarrito, impotente. Guardò Fiord, che si acquattava vicino al fuoco, cercando di nascondersi dietro Lyo. E di colpo Fiord si rese conto d’essere terribilmente sciatta: il selvaggio groviglio dei capelli, le mani callose, la coperta rattoppata con cui copriva la stinta camicia da notte.