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«Tu sei l’amica di mio figlio» le disse il re.

Il volto di Fiord riprese colore, si sollevò con fierezza: come se con quella parola il re avesse conferito un’improvvisa dignità a lei e alla sua logora coperta.

Incuriosito, il drago ripeté la parola: «Amica.»

Il re si sedette: «Il mago mi ha portato un anello» disse, stancamente. «Il mio anello. Mi ha detto chi l’ha gettato in mare. E chi l’ha restituito.» Scrutò il viso di Kir come se di nuovo vi scorgesse lunghe chiome pallide adorne di perle, ondeggianti nella marea. La voce gli si addolcì: «Pensavo che ti fossi innamorato della figlia di un pescatore.»

«È così» commentò lui, rigidamente.

«Pensavo che fosse questo, a tormentarti» continuò il re. «Speravo che fosse solo questo. Il mago ha detto che se volevo fare qualcosa di saggio, per una volta, dovevo chiederti cos’è che vuoi. Ha detto…»

«Come lo sapevi?» l’interruppe Kir, rivolto a Lyo.

La sua voce era tesissima; il drago si dimenò, nuovamente inquieto. Lyo alzò gli occhi dalle ghirlande sparpagliate sul libro. Parlò con calma, ma parve a Fiord che scegliesse con estrema cura ogni parola, come se pronunciasse un incantesimo per scongiurare una burrasca: «Strane cose hanno attratto la mia attenzione. Felicità, dolore s’intrecciano attraverso il mondo come fili dai colori bizzarri, che conducono in luoghi imprevedibili. Anche quando sono nascosti, profondamente segreti, lasciano segni, lasciano messaggi, perché ciò che non viene espresso in parole si manifesta in altri modi. In città mi era giunta voce che i pescatori di un piccolo villaggio desideravano l’intervento di un grande mago, per togliere una catena d’oro ad un mostro marino. Prima ancora di vedere la catena, sapevo che l’oro era la cosa meno importante. Molto più importante era il legame che qualcuno aveva forgiato tra acqua e aria, tra un luogo misterioso sotto le onde e il luogo dove dimorano gli uomini. E quando ho visto il drago, quando mi sono tuffato nei suoi grandi occhi per penetrargli nella mente, allora ho capito…»

«Che cosa… cosa hai capito?» mormorò il re.

«Perché fosse tanto attratto dai pescherecci, dalle voci umane. Perché emergesse dalle onde per scrutare la terraferma. E allora ho cominciato a sospettare come mai il re e suo figlio fossero venuti così presto, quest’anno, e come mai così spesso si vedesse il giovane principe galoppare sul suo cavallo, nelle ore più strane del giorno e della notte, lungo la riva del mare… Ancora non sapevo, allora, quanto di tutto ciò comprendessero il re o il principe o il drago. E tuttora non so perché al drago fosse finalmente consentito di comparire sulla superficie dell’acqua. Ma io l’ho liberato, e ho trasformato in fiori la catena d’oro… in parte per disturbare il mare, per mandargli un messaggio. E in parte perché, se l’oro affonda, i fiordalisi possono galleggiare. E poi ho cercato di insegnargli alcune cose. E poco dopo lui ha ripreso la sua forma d’uomo… ancora non capisco come e perché. E ha trovato Fiord. Ha un nome?» chiese al re.

Il re scosse la testa, pallidissimo: «Ho battezzato mio figlio dopo la morte della regina. Mio figlio venuto dal mare. Non ricordo di aver mai visto il vero bambino di mia moglie. Il bambino che ho visto nella culla, l’ho chiamato Kir: e ricordo di aver notato quanto fossero scuri i suoi occhi, il blu cupo del crepuscolo, e di essermi detto che sarebbero cambiati, per assumere il colore estivo degli occhi di sua madre. Ma non sono cambiati.»

«Ma giù in fondo al mare, prima di metterlo nella culla del principe, la madre di Kir deve averlo chiamato in qualche modo. Così Kir ha un doppio nome…»

«Perché doveva darmi un nome…» sussurrò Kir «… per poi abbandonarmi? Deve averci odiati entrambi, per incatenare lui a quel modo, e gettar via me…»

«Non ti ha gettato via. Ti ha dato a me!» ribatté il re. «Sapeva che ti avrei amato. Io l’amavo, tua madre.»

Kir rimase in silenzio; continuava a chiudere e aprire le mani.

Il re si alzò adagio, si mise davanti a lui: «È così terribile?» domandò, con dolore. «È così terribile stare con me sulla terra?»

«È terribile» rispose lui, con voce rotta. Sollevò il viso, perché il re vedesse i suoi occhi di mare. «Non posso farne a meno. Non riesco a trovar pace in questo mondo. Solo nel mare potrei trovar pace. E non posso amare, in questo mondo. Neppure Fiord.»

«Tu mi hai amata» disse lei, con voce tremante.

«No.»

«Sì, invece. Ti sei preoccupato per me. Hai pensato a me.»

Kir tacque di nuovo, guardandola; e un guizzo di luce gli trasformò il viso per un attimo. Poi si rivolse al padre, gli sfiorò un braccio in atteggiamento di supplica: «Ti prego. Devi lasciarmi andare.»

«Come puoi…» il re s’interruppe. A fatica riprese: «Come puoi esser certo che una volta nel mare non avrai nostalgia di questa terra?» Il fuoco gli illuminava il viso, rivelando un luccichio di lacrime trattenute. Fece una nuova pausa, come per trovare la forza di proseguire. E le parole gli venivano con difficoltà, quando aggiunse: «Se tu non lo desiderassi con tanta passione, non ti lascerei mai andar via.»

«Ti prego, vorrai… vorrai parlare con mia madre?»

Gli occhi del re lasciarono il figlio, per scivolare in una lontana memoria. Le linee severe del suo volto si spianarono, si ammorbidirono, come se guardasse il mare azzurro d’un giorno d’estate: «Un tempo» bisbigliò «un tempo ero in grado di comprendere il suo strano linguaggio marino.»

Di nuovo balzò intorno a loro la ragnatela di fuoco. Giocherellando con le ghirlande, Lyo aveva creato un tale groviglio di fili che pareva di trovarsi in un fiammeggiante labirinto.

«Stai mettendo a fuoco il mondo» mormorò il drago.

«Già, non è acqua…» commentò Lyo, pensosamente. «È una cosa che non può esistere nell’acqua… Strano, strano…»

«Di che si tratta?» chiese il re. «Un altro messaggio?»

«Sono i malefici di Fiord. Le sue ghirlande di sterpi. La madre di Kir gliele ha restituite così, trasformate in lune e sentieri di luna, sentieri di fuoco.»

«Perché?»

«Perché ce ne servissimo.»

«Come?»

Lyo scosse la testa: «Non lo so» bisbigliò, come incantato dall’intreccio di luce. «Non lo so proprio.»

Immobile accanto al padre, Kir osservava in silenzio. Sembrava placato, notò Fiord: già era più simile a sua madre, come se cominciasse a spogliarsi della sua esperienza umana. Volgendo gli occhi su Fiord, colse il suo sguardo malinconico, e le rivolse un sorriso. Fiord inghiottì un nodo di tristezza, un nodo che sapeva di salmastro. Kir la stava già lasciando.

Il drago si agitava, irrequieto: la marea lo chiamava, invitandolo a riprendere la sua forma di mostro.

«Fiord» disse «devo andare.»

Fiord annuì.

Il re si rivolse al mago: «Cosa possiamo fare, per lui?» Rughe profonde gli solcavano di nuovo il viso. «I miei due figli vivono in un mondo a metà. Non voglio perderli entrambi nel mare.»

Il drago si avvicinò a Kir, le dita che annaspavano sulla fibbia del mantello. Kir lo fermò, dolcemente: «Tienilo» disse. «Fuori fa freddo. Aspetta, vengo con te sulla riva.»

Il drago scosse la testa: «No. Rimani.»

Nel silenzio della stanza si udiva soltanto la marea. Ascoltando, il drago s’illuminò di un sorriso: il suo sorriso sereno, senza conflitti, come se anche le onde, i pesci, i gabbiani fossero cose che amava, insieme a tutte le parole imparate e al tocco umano di Fiord. Fiord gli apri l’uscio, lo salutò con un abbraccio affettuoso. Il drago fece per avviarsi, poi si voltò a guardare il re, incerto, come folgorato da qualcosa che finalmente vedeva ma non riusciva a comprendere: «Io voglio…» Esitò, misurandosi con quel suo nuovo pensiero. «Io devo rivederti.»

Il volto del re si distese in un immenso sollievo: «Sì» disse. «Sì.»