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«È presto» commentò lei, senza interesse.

«Stai lavorando in giardino?»

La madre si limitò a scrollare le spalle; quella zappa era tra le erbacce da mesi. Entrambe volsero di nuovo gli occhi alla finestra.

Sospeso sull’orizzonte, il sole incendiava le acque. I primi pescherecci erano già in porto; gli altri erano ancora prigionieri di quella fantastica luce d’argento. La madre sospirò piano. Il suo viso mutò, divenne delicatamente vivo, sembrò più giovane, più simile a quello che Fiord ricordava.

«È proprio come nel mio sogno…»

«Cosa?» esclamò Fiord, stupefatta.

«Ho sognato che guardavo il sole al tramonto. Poco prima che affondi dietro il banco di nebbie, quando brucia tra le nuvole e le barche sembrano navigare sulla luce… come se venissero da una terra che si può raggiungere a piedi, se solo si potesse camminare sulla superficie dell’acqua. È un paese che sta sotto il mare, ma nel mio sogno ho visto il suo riflesso, pallido e infuocato, in quella luce. E poi il sole è andato giù.»

Fiord aveva le guance rosse di rabbia: «Non c’è nessun paese!» esplose, e l’espressione segreta, sognante di sua madre svanì: il suo viso tornò ad essere quello di un’estranea. «Non c’è nessun paese magico sotto il mare! Smetti di cercarlo!»

Ma la madre si era di nuovo voltata a scrutare le onde. Fiord corse fuori e sbatté l’uscio così forte che un piccolo stormo di gabbiani, appollaiati sul tetto a godersi l’ultimo sole, si levò in volo stridendo. Alla finestra, la madre aveva di nuovo la faccia di chi dorme, e non sente altro, nei suoi sogni, che il sussurro del mare.

Capitolo secondo

Il pomeriggio seguente Fiord s’inerpicò sulla scogliera che incombeva sopra la capanna della vecchia. In cima c’era una mezzaluna di sabbia orlata di ginestroni: qui, nei giorni liberi, poteva sdraiarsi al sole, rimuginando il suo odio per il mare e sentendosi, in quel rassicurante cerchio verde, protetta dal mondo. I ginestroni cominciavano a sbocciare qua e là, minuscole corolle dorate che la facevano starnutire. Ma per il momento il suo magico cerchio era ancora d’un verde quasi compatto, con poche tracce d’oro.

Si strinse le ginocchia tra le braccia, osservando i gabbiani che volteggiavano intorno alle guglie. Più in là, al largo, sciami di nuvole correvano sul mare, creando un misterioso tessuto di luci e ombre. Mordicchiandosi un pollice, cominciò a riflettere su quel mistero. Cosa mai giaceva sotto quell’intreccio di colori, sotto quell’arabesco d’ombre? Pesci, semplicemente? O qualche mondo segreto, nascosto fra le alghe, che a volte saliva fin troppo vicino alla superficie, inquietando gli abitatori della terraferma? Come poteva impedirgli di turbare sua madre? Continuò a rosicchiarsi le unghie, poi tracciò sulla sabbia un sottile ghirigoro.

Lo esaminò criticamente, poi ne disegnò un altro. Malefici, li chiamava la vecchia. L’aveva vista, qualche volta, piegare dei flessibili rametti di salice, curvandoli in ghirlande dalle forme strane, spigolose, e poi intrecciarvi ragnatele di fili. Appese a porte e finestre, proteggevano le case dagli gnomi cattivi, dai vicini fastidiosi; tenevano alla larga i folletti maligni che venivano di notte a mungere le mucche. Forse, pensò Fiord, avrebbero saputo intrappolare sott’acqua la misteriosa magia del mare. Sì, decise, avrebbe preparato qualche sortilegio coi fusti secchi delle alghe, e poi avrebbe preso la barca per gettarli al largo. Doveva controllare la barca di suo padre, per vedere se c’erano falle nello scafo e se il timone era a posto, e procurarsi nuovi remi. Non l’aveva più ispezionato, il “Riccio di mare”, da quando i pescatori l’avevano ripulito dalla sabbia e dalle alghe, ormeggiandolo poi in fondo al molo. Qualcuno l’aveva coperto con una tela cerata, altrimenti sarebbe affondato sotto il peso delle piogge invernali. Probabilmente aveva il fondo tutto incrostato di gusci e teredini.

Disegnò un altro maleficio, un motivo contorto, sbilenco. Una folata di vento vi posò una piuma di gabbiano. Fiord se l’infilò sopra l’orecchio; poi strappò un getto di fragola selvatica che strisciava sulla sabbia e se l’intrecciò ai capelli, distrattamente. Il vestito — il suo vestito più vecchio — le copriva a malapena le ginocchia; largo alla cintura e così stretto di spalle che le cuciture minacciavano di saltare. Ma nel cerchio dei ginestroni non aveva importanza. Distese le gambe, seppellendo i piedi nella sabbia calda, ed escogitò un altro maleficio.

Chissà se doveva pronunciare qualche formula speciale, si chiese, perché funzionasse. Improvvisamente le mancò il respiro. Una strana sensazione le serpeggiava lungo la spina dorsale: lentamente, cautamente, girò la testa, per vedere chi la stava osservando.

Ai piedi della scogliera, il cavaliere bruno della notte precedente alzava gli occhi su di lei. Fiord trattenne il respiro, paralizzata, come se il mare stesso fosse strisciato furtivamente attraverso la spiaggia, per rovesciarsi nel suo cerchio magico. Poi batté le palpebre, e lo riconobbe. Era il giovane principe, uscito per una cavalcata in quel pomeriggio di sole. Il cavaliere bruno era Kir. Kir era il cavaliere bruno. Le due frasi continuavano a turbinarle nella mente. Un’onda s’infranse alle spalle del giovane, con un boato, e ruzzolò per mezza spiaggia, frugando, frugando; poi si ritrasse piano, poderosa, catturata nel bruno sguardo del cavaliere; per un attimo i suoi occhi assunsero tutti i colori del mare al crepuscolo, e per un attimo, guardandolo, Fiord si sentì come catturata dalla risacca.

Poi la faccia del giovane mutò di nuovo: semplicemente il figlio del re, fuori per una cavalcata. Fiord avvampò di vergogna.

«Ragazza» disse lui, bruscamente, col tono perentorio dei vecchi aristocratici che venivano alla locanda, anche se non doveva avere neppure l’età di Marli. «Dov’è la vecchia che abita in questa casa?»

Fiord si scostò i capelli dal viso; il getto di fragola le penzolava da un orecchio.

«La conosci?» gli domandò a sua volta, sorpresa.

«Dov’è?»

«È andata via.»

«Dove?»

Fiord avvertì un improvviso nodo alla gola. Quanta gente scomparsa, tutta in una volta…

«È andata via e non è più tornata» disse. Il dolore la rendeva rabbiosa. Aggiunse, aspramente: «Sicché, se vuoi un incantesimo, sei in ritardo.»

«Un incantesimo?» ripeté lui, palesemente sconcertato. «Era una strega? E tu chi sei? Il suo folletto domestico?»

Fiord sbuffò. Una folata di polline si levò dai fiori dei ginestroni, solleticandole le narici. Starnutì violentemente, e il getto di fragola le cadde su un occhio.

«Pulisco le camere alla locanda» disse, in tono annoiato. «E tu, dove lavori?»

Il giovane fece per parlare, ma subito richiuse la bocca, con espressione indecifrabile. Il cavallo si spostò di fianco, irrequieto. Fiord notò che la camicia del ragazzo, sotto la giacca di cuoio nero, aveva bottoni di perla. Al dito gli scintillava un anello, con una gemma del medesimo colore dei suoi occhi. Aveva sopracciglia nere, leggermente oblique verso le tempie. L’ombra degli zigomi sulle guance incavate lo faceva sembrare, in quella luce chiara, pallido come perla, pallido come spuma di mare.

«Io pulisco le scuderie» disse infine. «Mia madre alleva cavalli marini.»

Una lunga onda scura si srotolava sull’acqua, interminabile; finalmente raggiunse la riva, incupendosi poco prima di rovesciarsi sulla spiaggia. Il principe si girò a guardarla, e quando si rivolse di nuovo a Fiord, parve che i suoi occhi racchiudessero, per un attimo, un riflesso del mare.

«Non c’è nessun paese, in fondo al mare» disse Fiord, a disagio. «Nessun paese.»

Il giovane inarcò le sopracciglia, guardandola fisso: «Perché dici così?» chiese, bruscamente. «L’hai visto?»

«No!» Con un rametto prese a far buchi nella sabbia, esaminandoli con ferocia; poi, quasi con riluttanza, aggiunse: «Mia madre l’ha visto. In sogno. E così getterò un maleficio sul mare, una maledizione.»