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«Una maledizione!» Il principe sembrava troppo sorpreso per mettersi a ridere. «Sull’intero mare! Perché?»

«Perché il mare ha strappato mio padre dalla barca e ha stregato mia madre, che adesso sa soltanto contemplare l’acqua, in cerca di quel paese nascosto…»

«Il paese in fondo al mare…» mormorò lui. Nella sua voce affiorava un desiderio che Fiord conosceva fin troppo bene.

«Non c’è nessun paese!» ripeté, caparbia, mentre lacrime di dispetto le pungevano gli occhi.

«Cos’è che vede tua madre, allora? E contro che cosa intendi gettare il tuo maleficio?»

Fiord rimase in silenzio. Folate di vento tiepido s’insinuavano tra i ginestroni, spargendo sabbia sui suoi ghirigori, gettandole indietro i capelli. L’espressione del principe mutò di nuovo, improvvisamente incuriosita.

«Eri tu, allora.»

«Io cosa?»

«Nella capanna della vecchia, ieri notte. Eri ferma sulla porta, con la luce del fuoco nei capelli.»

«E allora eri tu, quello che guardava il mare» disse lei.

«Per un momento ho pensato… non lo so cosa ho pensato. La luce ti scivolava sui capelli come la marea.»

«Per un momento ho avuto paura… Ho pensato che fossi uscito dal mare.»

«E come potevo? Non c’è nessun reame, sotto il mare.»

La guardò ancora, intensamente. Poi, in silenzio, smontò di sella, lasciando il cavallo a scacciare i moscerini con la coda; trovato il sentierino tra i ginestroni, s’inerpicò in cima alla scogliera. Quando raggiunse il cerchio di Fiord, lei s’agitò, nervosa, perché quel suo spazio privato le pareva troppo piccolo per contenere tanta ricchezza, tanta inquietudine. Il principe restò in piedi a guardare i suoi “malefici”, sempre in silenzio; poi s’inginocchiò davanti a lei.

«Come ti chiami?»

«Fiord.»

«Come i fiordi?»

«Sì. Mio padre li ha visti quand’era ragazzo, in una terra lontana. Erano le impronte di un gigante, diceva, che aveva appoggiato le dita sulla costa per uscire dal mare.»

«Il mio nome è Kir.»

«Lo so.»

Le lanciò un’altra di quelle sue occhiate penetranti, insondabili. Fiord si chiese se sorridesse mai; e comunque non sorrideva di certo alle sguattere della locanda. Curvo sul suo disegno, Kir ne seguì le linee con un dito, delicatamente: «Cos’è? Uno dei tuoi malefici?»

«Sì.»

«E sarà in grado di terrorizzare un eventuale regno acquatico nascosto sotto le onde?»

«Non mi viene in mente nessun altro sistema» ribatté lei, scorbutica. «Cerco di ricordarmi gli incantesimi della vecchia. È questo che volevi da lei? Un incantesimo?»

«No.» Il giovane stava ancora fissando il disegno; il suo volto pareva distante, adesso, remoto. Non gliel’avrebbe detto, pensò Fiord. Invece si decise: «Volevo chiederle una cosa. L’ho conosciuta un giorno, tanto tempo fa. Ero laggiù a guardare il sole che affondava dietro quelle due guglie, e la luce sull’acqua formava come un sentiero, dalle rocce al sole. E lei è uscita a guardare con me. E ha detto delle cose. Strane cose. Favole, forse. Sembrava… sembrava che l’amasse, il mare. Era così vecchia che pensavo dovesse sapere tutto. Lei… bene, sono venuto qui a parlare… volevo parlare con lei.»

Aveva lo sguardo di nuovo perduto sull’orizzonte, mentre con un dito — il dito con l’anello — tracciava nella sabbia un suo privato maleficio. Gli occhi di Fiord si spostarono dallo scarabocchio alla gemma, e poi salirono alle perle del polsino, e alla finissima stoffa color latte della camicia, e infine, cautamente, al viso. Sull’incarnato pallido le ciglia spiccavano nere come penne di corvo.

Fiord diede uno strattone improvviso alla gonna, cercando di tirarla sulle ginocchia callose; chiuse le mani, a nascondere le screpolature. Ma era inutile cercare di nasconderle: eccola lassù, in pieno giorno, seduta accanto al figlio del re, con le mani logorate dal lavoro, le ginocchia rosse, l’abituccio così sbiadito che non ricordava più il colore originale. Sospirò, e subito si stupì di se stessa. Che le importava, in fin dei conti? Cosa le stava succedendo?

Il principe udì il suo sospiro sotto il sospiro del mare, e volse la testa. Le chiese, incuriosito: «Come farai a portar via dalla sabbia questi tuoi malefici, per gettarli in mare?»

«Li rifarò con sterpi e alghe secche. Li piegherò come ghirlande e vi intreccerò del filo, in modo che mantengano la forma. Poi prenderò la barca di mio padre, e mi spingerò al largo, e li getterò nell’acqua.»

«Vorresti…» disse lui, ma subito s’interruppe, distogliendo bruscamente lo sguardo. Poi riprese, le mani avvinghiate alle ginocchia: «… Vorresti dare al mare un messaggio per me? Puoi legarlo a una delle tue ghirlande?»

Sbigottita, Fiord annuì con un cenno: «Quale messaggio?» chiese.

«Te lo porterò qui. Quand’è che intendi gettare la tua maledizione?»

«Il mio prossimo giorno libero. Tra una settimana.»

«Te lo porterò appena possibile.» Diede un’occhiata al sole, e poi alla casa del re, che si vedeva a breve distanza in cima al suo levigato trespolo verde, alto sul mare. «Devo andar via. Lascerò il messaggio nella capanna, se non ci sei.»

«Non ci sarò» disse Fiord, alzandosi. «Voglio dire, sarò al lavoro.»

«Ma io tornerò a trovarti. Per vedere che cosa ha fatto al mare la tua maledizione.» Sorrise, un sorriso dolce-amaro che la stupì; e Fiord rimase ferma a guardarlo, mentre scendeva dalla scogliera e rimontava a cavallo. Le gettò un ultimo sguardo e partì al galoppo: il bruno cavaliere, figlio del re, che avrebbe bussato alla porta di Fiord come un qualunque figlio di pescatore, con un messaggio per il mare.

Quattro giorni dopo trovò il messaggio sul tavolo, tra i suoi “malefici”: cerchi e quadri irregolari di alghe e rametti, che trasmettevano, a giudizio di Fiord, un messaggio decisamente ostile.

Il messaggio del principe era inatteso, imprevedibile: minuscoli oggetti avvolti in un fazzoletto di stoffa così fine, che solo a sfiorarla s’impigliava nelle rozze dita di Fiord. In un angolo della tela candida, ornata di pizzo sfarzoso, erano ricamate una corona e una sigla: QV. Non le iniziali di Kir. Perplessa, Fiord sciolse il nastro che legava l’involto.

Si sedette a palpare, una per una, le piccole cose che conteneva. Un corto ricciolo di capelli neri. Di Kir? Una perla nera, dalla forma strana: non sferica, ma oblunga, tormentata. Una seconda ciocca di capelli, neri con stilature grigie. E infine un anello d’argento purissimo, su cui erano cesellate delle iniziali: KUV. Kir? Ma chi era Q? Lasciò cadere l’anello, come se bruciasse, e s’irrigidì sulla sedia come se il re in persona fosse entrato in casa sua.

Q, K. Queen, regina; e King, re. King Ustav Var. il padre di Kir. E lì sul tavolo c’era una ciocca dei suoi capelli, ormai ingrigiti.

Con dita tremanti, rimise ogni cosa nel fazzoletto e riannodò il nastro; poi distolse lo sguardo, quasi avesse sorpreso il re in qualche suo piccolo gesto privato, come contemplarsi i piedi nudi, per individuare i segni dell’età. Poi infilò l’involto in un vaso d’argilla, sullo scaffale delle fatture, e chiuse accuratamente il coperchio.

Dopo averci ragionato su, dovette riconoscere che le era impossibile raggiungere il largo da sola, col “Riccio di mare”. Benché avesse braccia e schiena robuste, a furia di portare secchi d’acqua e fastelli di legna, ci voleva qualcuno ben più forte di lei per controllare due pesanti remi in mare aperto, con l’acqua che tumultuava sotto la chiglia. Sarebbe stato un incubo anche solo uscire dal porto, con quelle onde violente che spumeggiavano sopra i frangiflutti. Avrebbe perso i remi, senz’altro, e ai pescatori sarebbe toccato venire in suo soccorso: e chissà quanto l’avrebbero sgridata e presa in giro! Le uniche donne del villaggio che uscivano a pescare — Leith, e Bel, e Ami — erano due volte lei, quanto a stazza, con muscoli di pietra e mani incallite dai remi, dure come assi.