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Fuori, il vento continuava a fischiare e investire le finestre di folate impetuose.

«Ma a pensarci bene, c’è un altro problema» aggiunsero i pescatori. «Anche se ce la facessimo a forzare un anello, a cosa ci servirebbe? Come impedire alla catena di scivolare giù, sul fondo? Sarebbe come tirare a bordo una balena. Ci colerebbe a picco, se cercassimo di trattenerla.»

«Allora taglieremo un anello sott’acqua. Poi uccidiamo il mostro e aspettiamo che sia il mare a trascinarcelo a riva.»

«Ucciderlo! Il minimo che può capitare è che solo a toccarlo quello ci sparisce sotto gli occhi. O peggio ancora, può rivoltarsi contro di noi e affondarci le barche.»

«E allora? Ditemi voi come facciamo a prendere l’oro!»

Carey continuava a soffermarsi sulla porta, indugiando ad ascoltare. Fiord era tentata di imitarla. Quel drago fiammeggiante, con la sua luminosa catena, forniva l’unica nota di colore in un mondo dove ogni cosa — sabbia, mare, cielo — era illividita nel grigio della pioggia. Appariva come una favola meravigliosa per i vuoti giorni di noia; un’elaborata storia di pesca, da raccontarsi sui boccali di birra accanto a un bel fuoco caldo.

Ma Marli, entrando a portare dei bicchieri puliti, intervenne con rabbia: «Che bravi! Pensate all’oro e subito vi viene l’idea di uccidere, eh? Tipico! Tipico di voi tutti!»

Imbarazzato, Enin cercò di calmarla: «Andiamo, Marli, si sta solo chiacchierando, via! Che altro possiamo fare, in una giornata come questa?»

«Ma non state usando il cervello!»

«Oh be’…» ridacchiò Ami, divertita. «Nessuno ci paga, per questo.»

«Avete mai conosciuto uomo o donna capace di fabbricare una catena come quella? Metti caso che chi l’ha costruita abbia qualcosa da ridire sul fatto che gliela rubate. O che liberate quel mostro.»

«Oh, probabilmente è vecchissimo, Marli. Probabilmente è…»

«Ah, ah! E allora perché è così luccicante da lasciare il suo riflesso nei vostri occhi ingordi? In tutti i vostri racconti sul drago non vi ho mai sentiti dire che avesse incrostazioni di alghe o altro… se è così vecchio come dite. A mio giudizio, dovreste andarci più cauti con chi tratta come il suo cucciolo personale un bestione di quella stazza! Ecco cosa penso, e non c’è bisogno che mi paghino, per questo!»

Continuarono a parlare, perché ancora il vento infuriava e sferzava l’acqua, sollevando ondate di spuma, e ancora la pioggia scrosciava in raffiche impetuose. Ma l’intervento di Marli aveva dirottato la conversazione su temi leggermente diversi, notò Fiord. Adesso non era più “Come?”, ma “Chi?”; non più mostri marini, ma terre incantate e stregonerie.

Presero a inventarsi paesi misteriosi su isole lontane, o in fondo al mare, o galleggianti a pelo d’acqua.

«Un po’ come i banchi di alghe. Solo che possono guizzare sulla superficie più veloci dei gabbiani, e svanire di colpo come svanisce la luce sull’acqua, senza lasciare tracce. Enormi, bellissime isole galleggianti, fatte di perle e corallo e oro… Il popolo del mare tiene il mostro come un bambino il suo cucciolo. E l’ha incatenato a quell’isola invisibile.»

«No, non è un cucciolo. È qualcuno che ha commesso una diavoleria, o ha fatto arrabbiare un mago cattivo, e lo tengono incatenato al fondale per punirlo.»

«Vorrà liberarsi, allora.»

«Vorrà che gli spezziamo la catena.»

«Supponiamo di farcela: credete che quel mago cattivo ci lascerà prendere l’oro?»

«Bah, dovremmo prima prendere l’oro e poi preoccuparci.»

Fiord continuava a passare avanti e indietro il suo strofinaccio, distrattamente, perduta in mille fantasticherie. Isole lontane in cima al mondo, oltre i ghiacciai e gli iceberg, oltre le terre dell’inverno, oltre l’inverno stesso, le splendevano nella mente come luce d’estate. Paesi sommersi in fondo al mare, dove intere città erano fatte di perle, e gli abitanti indossavano vestiti di squame, fluttuanti come nuvole argentate. E uno di loro aveva costruito quella catena d’oro, per uno specialissimo…

«Marli» disse bruscamente.

«Sì?»

«Perché la gente fa le cose?»

«Perché? I motivi sono tanti quanti sono i pesci nel mare.»

«Voglio dire, se tu avessi fatto una catena per un drago, sarebbe perché lo amavi e non volevi che ti sfuggisse? O perché l’odiavi e gli volevi togliere la libertà? Oppure perché ne avevi paura?»

«Mah, per ciascuno di questi motivi, forse. Perché?»

«Stavo solo chiedendomi… Sarà stato l’amore o l’odio o la paura che ha costruito una catena come quella?»

Marlì appariva sorpresa: di rado Fiord usava concetti così complessi. «Non lo so. Ma a giudicare da come ne parlano quelli di là, credo che lo scopriremo presto.»

Finito il lavoro, Fiord tornò alla capanna, stanca e pensierosa; camminando lungo la spiaggia scrutava l’orizzonte, per cogliere il minimo accenno di luce nel monotono, uniforme grigio del cielo e del mare. La pioggia le pungeva gli occhi; si calò sulla fronte il cappuccio del mantello. No, decise, nient’altro che i pesci, agili e muti, potevano dimorare in quelle onde. Non c’erano mirabolanti paesi sprofondati negli abissi, pieni di castelli fatti di perle e ossa di balena. Né esistevano isole galleggianti dall’estate perenne. La catena del drago non era altro che un anello d’alghe, luccicante di minuscoli, fosforescenti organismi marini. Quanto al drago, si era perduto, probabilmente, e veniva da calde acque lontane, da un mare dove non era un mostro. Tutto qui. Nessun mistero. Nulla di strano, era tutto spiegato…

Eppure eccolo là, oltre le guglie, che emergeva dai flutti tumultuosi, sfavillante come il fuoco, con la luce del sole annodata intorno al collo.

I grandi occhi erano puntati a riva, verso l’unico movimento sulla spiaggia: Fiord.

Fiord si fermò, a bocca aperta. La creatura indugiava a guardarla, massiccia e curiosa, coi fiammeggianti filamenti che turbinavano irrequieti sull’acqua. Le delicate pinne sopracciliari guizzavano su e giù, a segnalare sorpresa e interesse. Sottili filamenti gli orlavano il labbro superiore, come baffi. Galleggiava tra le onde, i grandi occhi sospesi sul mare come due soli scarlatti; sembrava che si lasciasse trascinare dalla corrente, avvicinandosi sempre più alla spiaggia. Fiord cominciò a indietreggiare, spaventata, e andò a sbattere contro qualcosa, qualcosa che le soffiò gentilmente tra le scapole.

Si voltò di scatto, in preda al tenore. Il nero cavallo di Kir sbuffò di nuovo, mentre Kir, senza distogliere gli occhi dal drago, le porgeva una mano: «Sali.»

Fiord posò il piede sul suo stivale e si issò goffamente dietro di lui. Il principe non aggiunse altro: fermo sulla sella, gli occhi stretti per escludere la pioggia, continuava a contemplare il drago. E il drago pareva osservarli altrettanto intensamente, con tutte le pinne e i filamenti che vorticavano per sostenerlo nella burrasca.

E poi scomparve, scivolando con fluidità di pesce nel suo mondo segreto.

Kir trasse un lungo sospiro silenzioso; poi sollevò le redini e spronò il cavallo ad un improvviso galoppo. Fiord si avvinghiò a lui, freneticamente. Al suo tocco, Kir ebbe un sussulto, e rapidamente rallentò l’andatura.

«Scusami… Dimenticavo che eri qui.»

«Posso tornare a piedi» suggerì Fiord, ansimando.

«Ti ci porto io.» Ma continuò ad avanzare nella pioggia, al piccolo trotto, la faccia sempre rivolta al mare.

«Cos’è?» domandò Fiord. «Dove comincia, quella catena?»

Per un lungo momento Kir non rispose, e Fiord si sentì come una patella che parla allo scoglio cui è attaccata. Poi, bisbigliando così piano che Fiord dovette aguzzare l’orecchio per distinguere le parole tra il boato del vento e delle onde, disse:

«Io credo che cominci nel cuore di mio padre.»