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Bressing si era ripreso. «Alcuni archeologi androidi stavano scavando con una squadra di robot sterratori» spiegò. «Captarono il rumore del vostro impianto di congelamento e cominciarono a scavare. Dovettero tagliare il ghiaccio per estrarvi, credo.»

Markham tacque per qualche istante. Poi disse, con un sospiro: «Spero che esistano documentazioni sul... sul tempo di allora. Vedete, avevo moglie, figli. Vor­rei sapere...»

L’uomo del ventiduesimo secolo lo interruppe. «Se ne occuperanno gli androidi. Praticamente sono loro che si occupano di tutto. Tra parentesi, la vostra A.P. dovrebbe arrivare da un momento all’altro. Penserà lei a tutto quello che può servirvi. La cosa importante, amico mio, è di riposare. Penso che dobbiate restare al Risanatorio per un breve periodo, ma la vostra A.P. vi comunicherà la data del rilascio appena sarà qui.»

«A.P.?» chiese Markham incuriosito.

«Androide personale» spiegò Bressing spazientito. «Tutti l’abbiamo. Che cosa sarebbe la vita senza un androide personale? Bene, caro signore, adesso devo andare. Il mio rilascio è fissato per domani.»

«Siete un paziente, allora?»

«Ospite, è il termine che usiamo noi» disse Bres­sing. «Sono un ospite del reparto psichiatrico. La maggior parte degli artisti lo diventa, prima o poi. E ades­so sdraiatevi e cercate di rimettervi in forze. Vi man­derò la vostra A.P., se ve l’hanno già assegnata. Le pre­visioni erano che sareste morto, quindi può darsi che non abbiano provveduto.»

Bressing gli rivolse un largo sorriso, si voltò e uscì prima che Markham potesse comprendere appieno quell’ultima affermazione. L’altro non era uscito nem­meno da un minuto, che una donna entrò nella stanza.

Aveva una gran massa di capelli d’oro, la faccia ova­le e liscia. Era vestita quasi secondo la moda del ven­tesimo secolo. E assomigliava... assomigliava...

Markham la guardò sbalordito.

«Katy!»

Ma nello stesso tempo, sapeva benissimo che non era Katy. Gli occhi erano azzurri, ma mancavano di vita. Le labbra erano rosse e piene, ma rigide e quasi inerti... No, non poteva trattarsi di Katy! Era solo una sua gemella senz’anima, un macabro scherzo del ven­tiduesimo secolo... Un androide!

Markham si sentì assalire dal furore. Un furore lo­gico, giustificato. Perché mai gli facevano una cosa simile? Perché, in nome del buon senso, osavano...

«Mi dispiace di non essere stata pronta al momen­to del vostro risveglio, signore. Ma non si sapeva se sareste veramente vissuto. Le mie modifiche sono ap­pena state completate. Sono Marion-A, la vostra an­droide personale.» La voce della ragazza aveva toni molto più variati di quella dell’altra. Non era così lon­tana e automatica.

A Markham mancavano le forze per dare sfogo al­l’ira. Cominciò a tremare, vergognoso della propria debolezza. «Voi assomigliate a mia... mia moglie» dis­se, dolorosamente conscio di parlare a un essere non umano.

«Sono stata rimodellata sulla fotografia trovata nel vostro portafogli» spiegò Marion-A. «Si è pensato che avreste apprezzato la rassomiglianza... Ora, signore, se lo desiderate, vi porterò nelle vostre stanze.»

2

John Markham rimase ospite nel Risanatorio di Lon­dra-Nord per altri sei giorni. Era il periodo normale di convalescenza che i dottori definivano R.A.S.: risveglio dall’animazione sospesa.

Sebbene lui fosse un bizzarro sopravvissuto di un’e­poca remota, non era, come apprese in seguito, l’unico caso di animazione sospesa. Anzi, la maggior parte de­gli altri ospiti si stava proprio rimettendo da un R.A.S., o si preparava a subire un super congelamento per un periodo che poteva variare da una settimana a un an­no intero.

Nel ventiduesimo secolo, l’animazione sospesa stava rapidamente diffondendosi come la cura più adatta per le nevrosi più gravi. La cosa più strana era che il sistema dava ottimi risultati.

Ma quello che incuriosiva soprattutto Markham, ri­guardo al Risanatorio, era l’apparente mancanza di contatti personali fra gli ospiti. La sua unica esperien­za in fatto di degenza in un ospedale del ventesimo secolo, causata da un’appendicite, l’aveva indotto a credere che i pazienti fossero gregari per natura. Que­sto non avveniva, evidentemente, nel Risanatorio di Londra-Nord.

Durante l’intera permanenza vide sì e no una doz­zina di altri ospiti, e parlò solo con tre di loro. Il pri­mo era Bressing, il secondo un signore di mezza età talmente miope da scambiare Markham per un adroide, il terzo una ragazza di vent’anni circa che Markham sorprese in lacrime in un corridoio. Le aveva chiesto subito se poteva fare qualcosa per lei. La ragazza l’a­veva fissato per un attimo, poi con un enfatico No! No! No! era fuggita via, lasciando Markham con l’im­pressione di averla resa anche più infelice.

Non sapeva con certezza se quell’assenza di rappor­ti fra uomini fosse involontaria o favorita. L’apparta­mento che gli androidi gli avevano destinato era un so­pralzo sul tetto piatto del Risanatorio. Accanto al suo ce n’erano altri identici, ma nessuno occupato.

Sotto molti aspetti, era grato di quell’isolamento, che gli permetteva di abituarsi lentamente all’idea di essere saltato dal ventesimo al ventiduesimo secolo. Aveva tutto il tempo di mettere in chiaro le idee, di trovare un po’ di forza per rassegnarsi dei dolori per­sonali, perfino di guardare al futuro...

Il rifugio era confortevole: composto da una camera da letto, un bagno e un soggiorno. Tre pareti di cia­scuna camera erano dipinte a colori vivaci, la quarta era semplicemente una lastra di vetro molto opaco e spesso. L’arredamento era semplicissimo e funzionale, ma il pavimento era ricoperto da un tappeto folto, e la sera le luci diffuse contribuivano a dare ai mobili austeri dell’ambiente uno scintillio intimo.

Durante i pochi giorni in cui occupò l’appartamen­to, Markham dovette assuefarsi a un nuovo concetto di solitudine. Marion-A infatti, come sua androide personale, non lo lasciava un momento. La sua prima esperienza circa le funzioni di un androide personale la fece quando lei lo spinse col carrello fuori dalla stanza di congelamento, giù per un corridoio, dentro un montacarichi, e infine nell’attico dove avrebbe abi­tato.

Una volta là, lei l’aveva aiutato a sistemarsi sul di­vano e aveva spinto via il letto a rotelle, per ritornare pochi minuti dopo con un assortimento di indumenti del ventiduesimo secolo. Markham scelse i meno biz­zarri, e stava per chiedere all’androide di aiutarlo a raggiungere la stanza da letto per poterli provare, quando Marion-A, con prontezza ed efficienza, cominciò a vestirlo. Markham era troppo sorpreso per obiet­tare, troppo scosso per fare commenti finché lei non ebbe finito.

Le mani di lei erano tiepide, notò. Il tocco imper­sonale, ma delicato, il tessuto della pelle era strano al tatto, ma non sgradevole. Lo vestì da capo a piedi co­me se per lei fosse una faccenda di ordinaria ammi­nistrazione.

«Dunque tu sei la mia androide personale» disse Markham, pensoso, dopo aver preso visione del risul­tato con l’aiuto di uno specchio a mano. Posò lo spec­chio e guardò di nuovo Marion-A. Solo in quel mo­mento si rese conto di aver evitato lo sguardo diretto di lei sin da quando avevano lasciato la camera di con­gelamento.

Aveva superato l’impressione prodotta dalla rassomi­glianza con Katy. Era, infatti, una ben povera somi­glianza e l’aveva tanto colpito perché probabilmente aveva continuato a sperare senza rendersene conto di vedere apparire Katy grazie a un miracolo.

Marion-A era più alta di Katy. I suoi lineamenti era­no più simmetrici, le spalle più larghe, i fianchi più snelli, la vita più sottile. Troppo perfetta per essere vera.

Indossava una semplice camicetta rossa di maglia e una gonna nera. Appuntata sulla camicetta, proprio alla gola, c’era una spilla d’argento. Guardandola me­glio, Markham vide che si trattava esattamente di un monile a forma di A. L’iniziale di androide. Nel caso,pensò cinicamente, che qualcuno dovesse nutrire dub­bi in proposito.