«Sì, signore» rispose Marion-A. «È l’usanza, per ogni essere umano adulto, tenere un androide personale.» Restava immobile, subendo l’esame di lui senza mostrare alcuna reazione.
«Sai qualcosa sul mio conto?» chiese bruscamente Markham.
«So soltanto, signore, che provenite dal ventesimo secolo, perché siete stato preservato per caso in A.S. L’archeologo che vi ritrovò ha dichiarato che la vostra sospensione dovette cominciare quindici o diciotto decenni fa.»
Markham sorrise amaro. «Mica male... la data effettiva è il mille novecentosessantasette.»
«Sì, signore.» Marion-A si chiuse nel silenzio e rimase immobile ricambiando lo sguardo fisso di lui con indifferenza totale.
Ora che aveva superato la sorpresa iniziale, Markham era in vena di fare domande.
«Dammi la definizione di androide» disse freddamente.
«Un androide, signore, è un automa modellato sullo stile di un essere umano.»
«Soltanto una macchina, dunque?»
«Sì, signore, essenzialmente una macchina.»
«Qual è la funzione degli androidi allora?» Lo sguardo di lui si fece quasi insolente. Si stava comportando come un bambino, e ci trovava gusto. Se ne stava comodo sul divano, ma aveva lasciato lei in piedi. Oziosamente, si chiese se sarebbe rimasta in piedi finché lui non le avesse ordinato di sedersi.
«La funzione degli androidi» rispose Marion-A «è di assecondare gli interessi degli esseri umani.»
«Dunque, tu saresti un ibrido meccanico tra l’infermiera e la domestica?»
«Sì, signore» disse lei senza scomporsi. «Sono programmata anche per essere di compagnia.» Esitò. «Esistono due tipi principali di androidi: il tipo personale e quello esecutivo. Il primo funziona per il beneficio dell’individuo, il secondo per il beneficio della società.»
Markham si appoggiò comodamente ai cuscini e le rivolse un sorriso ironico. «Parlami di loro. Ho molto da imparare riguardo il ventiduesimo secolo. Tanto vale che cominci dal soggetto interessantissimo degli androidi.» La vista di lei che se ne stava in piedi là di fronte, senza dare alcun segno di stanchezza o di indignazione, cominciava a irritarlo. «Scusa» disse impacciato, sentendo di arrossire. «Mettiti a sedere.»
«Grazie signore.» Marion-A tirò a sé uno sgabello di legno bianco. Poi, col tono impersonale di un conferenziere, cominciò a illustrare lo sviluppo dei robot.
Durante e dopo la guerra atomica, l’Epopea dei Nove Giorni, le popolazioni della maggior parte dei paesi industrializzati di tutto il mondo erano state ridotte a percentuali minime della loro precedente densità. Ma coloro che erano morti in conseguenza diretta dell’uso delle armi atomiche non erano stati niente in confronto al numero dei morti causati da malattie, pestilenze e carestie dei dieci anni che seguirono.
Essendo uno dei paesi più densamente popolati, l’Inghilterra fu naturalmente una delle nazioni più colpite. Nel 1967 la sua popolazione era di sessantacinque milioni di abitanti. I Nove Giorni e il decennio che seguì ridussero quel numero a poco più di sessantamila.
Questi sessantamila sopravvissuti erano chiaramente troppo pochi per mantenere in piedi l’economia della nazione. E poiché la monarchia era stata distrutta dalla guerra, il paese mancava perfino di un simbolo di unità. Il governo era inefficiente e risibile, perché era impossibile aumentare le forze di polizia e imporre l’osservanza delle leggi.
Non andò molto, quindi, che il concetto di unità nazionale venne completamente abbandonato, e la nazione si divise in tre gruppi regionali autonomi: la Scozia, le Midlands e il Sud. Nel frattempo, la carenza di manodopera aveva costretto gli scienziati e gli ingegneri sopravvissuti a dedicarsi allo sviluppo dei servo-meccanismi, dell’automazione, e infine dei robot.
Automi e computer elettronici erano entrati nella loro fase di vero perfezionamento all’inizio del mille novecentoquaranta. Ma poiché a quell’epoca la manodopera abbondava, erano stati progettati semplicemente per assolvere funzioni che andassero al di là della capacità umana in termini di energia e di tempo, oppure che fossero troppo pericolose.
I primi computer erano stati macchinari ingombranti, su per giù della grandezza di una casa. In cinquant’anni, la nuova tecnica li aveva ridotti alla misura di un baule. I primi robot erano stati creature pesanti, mostruose, simili a carri armati. Anche loro, in seguito, subirono riduzioni nella misura e migliorie nella forma.
Al principio, erano stati progettati per espletare compiti insoliti o pericolosi. Poi divennero sostituiti di normali braccianti, agricoltori e impiegati. Inoltre, per far sì che le macchine esistenti, alle quali erano destinati, non dovessero subire modifiche, i robot erano stati ridotti alla forma e alla dimensione di un uomo.
Alla fine, poiché il numero dei robot aumentava di conserva con la loro adattabilità industriale, essi furono in grado di mandare avanti tutta l’industria pesante e l’agricoltura, con l’aiuto di pochi supervisori umani che s’incaricavano di risolvere problemi che andavano oltre la portata dei microcervelli elettronici.
Arrivò l’epoca in cui fu evidente che la lotta per la preservazione dell’industria era vinta. Gli automi, che già superavano in numero i loro padroni, avevano vinto una battaglia che gli esseri umani non avrebbero potuto nemmeno iniziare.
Fino a quel momento, c’erano voluti gli uomini per costruire robot. Ma ormai era stato raggiunto lo stadio in cui un automa veniva progettato in maniera da poter costruire un altro automa. Ben presto, venne creato il primo impianto di produzione completamente indipendente, dove automi superspecializzati progettavano e fabbricavano altri robot del loro tipo. I robot controllavano ormai il proprio processo evolutivo.
Nel frattempo, soddisfatta la richiesta per il robot industriale, rimaneva da soddisfare quella per uso domestico. I robot avevano risolto il problema della manodopera maschile. Seguiva, inevitabilmente, quello della manodopera femminile: cominciò a farsi sentire il bisogno di un tipo di robot che assomigliasse più a un essere umano che a una lavatrice animata; in breve, di un robot che fosse in grado di presentarsi in salotto e nella camera dei bambini, e non solo in cucina. Un robot che potesse servire a tavola, occuparsi dei bambini, rifare i letti e spolverare il soggiorno. Un robot capace di preparare cocktail, di raccontare favole, di giocare a scacchi, o a bridge, a briscola. Un robot che ricordasse i compleanni e gli appuntamenti. Un robot che sapesse intrattenere, conversando, le persone sole e assistere i vecchi...
Nasceva l’era degli androidi.
I primi modelli rassomigliavano a leggere armature medievali. Poi il processo umanizzante andò via via perfezionandosi. Nuove tecniche permisero di risolvere il problema del peso; di conseguenza, i piedi si fecero snelli e di forma umana. Lo sviluppo della micropila, una centrale di corrente atomica in miniatura, permise alla sorgente dell’energia di essere contenuta in una capsula di piombo poco più grande di un cuore umano. Mani meccaniche vennero modellate sullo stile umano. La testa venne umanizzata e separata dal busto per mezzo di un collo. E finalmente, i contorni simili a carne vennero ricoperti da una pelle sintetica, una capigliatura naturale fu applicata per mezzo di una calotta di plastica, si creò una faccia con occhi, orecchie, naso e bocca artificiali. E labbra capaci di sorridere.
Il prodotto ultimo non aveva più nessuna rassomiglianza con i suoi antenati da una tonnellata e mezzo. Era sotto ogni aspetto un robot umanizzato. Un androide...