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A causa del loro aspetto umano, i robot provocaro­no nella società un cambiamento anche più grande di quello apportato dai modelli convenzionali. La gente si abituò in fretta all’idea di tenere androidi in casa, e ben presto venne considerato retrogrado chi si ostina­va a non avere un androide.

Permettere agli androidi di svolgere tutte quelle fun­zioni che non erano intrinsecamente interessanti venne considerato un segno di distinzione e di razza. Gli im­pieghi e le attività degli androidi si moltiplicarono. Si aggiudicarono completamente il governo della casa, di­ventarono autisti e accompagnatori. Diventò norma­lissimo per una nubile, o per una donna sola, farsi ac­compagnare a pranzo o a. ballare da un androide ma­schio. Per uno scapolo solitario, o per un marito la cui consorte se n’era andata in vacanza, o era comunque occupata altrove, diventò naturalissimo usare come compagna provvisoria un androide femmina.

Alla fine prese piede l’idea che ogni essere umano adulto dovesse avere un androide personale capace di fargli da valletto, da cameriera, da infermiera, da con­sigliere o da governante, secondo le necessità del mo­mento. Gli esseri umani finirono per contare sugli an­droidi per molti generi di attività per i quali i robot umanoidi non erano stati progettati in origine. In fin dei conti gli androidi erano soltanto macchine como­dissime. E quasi infallibili.

Verso la fine del ventunesimo secolo questi partico­lari automi avevano raggiunto un grado tale di ef­ficienza da poter intraprendere professioni che un tem­po erano state considerate esclusivamente competenza degli umani. Divennero medici, dentisti, poliziotti... perfino psichiatri. E così, finalmente, l’umanità scari­cò il lavoro dalle proprie spalle.

L’uomo era libero di disporre come voleva della propria vita. Era perfino libero di lavorare, se ci tene­va. Ma ben pochi lo facevano, poiché il lavoro era con­siderato... fuori moda!

Markham ascoltò il resoconto sugli androidi con crescente disgusto. Alla sua mentalità ventesimo seco­lo, il modo come le macchine avevano soppiantato gli esseri umani sembrava non soltanto incredibile, ma addirittura sinistro.

«E così se ne vanno a Patrasso l’iniziativa e l’in­telligenza» commentò avvilito. «Nel mio mondo, il lavoro era considerato una sfida. Ora la sfida non esi­ste più. Cosa può averla sostituita?»

«Anche l’ozio è una sfida» disse Marion-A. «Gli esseri umani sono creati in modo da aver bisogno di uno scopo nella vita. Se il lavoro non è più necessario, gli uomini sono liberi di esplorare altri campi di atti­vità: l’arte, per esempio, le conquiste sociali, e tutte le forme di disciplina psicosomatica, dallo sport alla religione.»

«A quanto pare ne sai parecchio su quello di cui un essere umano ha bisogno.»

«Sì, signore. È stata la parte essenziale della mia programmazione.»

Markham rimase per un poco silenzioso. Poi chiese: «Dimmi, quanti anni hai?»

Marion-A fece uno dei suoi rari sorrisi. «Sono stata creata un anno fa, signore. Mi fu data una program­mazione base e venni messa in un magazzino in atte­sa di poter essere usata. Dopo il vostro ritrovamento, e quando parve possibile che poteste essere risvegliato, io fui attivata e ricevetti una programmazione extra basata su estrapolazioni di vostre probabili necessità.»

«Capisco. Per un attimo avevo dimenticato che non sei...» Arrossì.

«Di origine biologica?» suggerì Marion-A.

Markham rise. «Esatto» disse. «Non sei di origi­ne biologica. Una definizione perfetta, me la ricor­derò.»

«Credo, signore» disse Marion-A, «che adesso fa­reste bene a riposare. Nei primi giorni dopo il risve­glio, è importante non affaticare la propria coscienza.»

Markham sbadigliò. Oltre che stanco si sentiva ama­ramente depresso e nervoso. «Forse hai ragione. Una buona dose di sonno naturale dovrebbe rimettermi in sesto. Ho tutto il tempo che voglio, per orientarmi. Che dici, il mondo del ventiduesimo secolo sarà ancora reale quando mi sveglierò?» La domanda voleva esse­re uno scherzo, ma solo in parte.

«Sì, signore» rispose Marion-A. «Non è probabile che dormiate più di quindici ore.»

Lui sorrise. «Non lo so. L’ultima volta che ho chiu­so gli occhi è stato per un secolo e mezzo.»

Allora Marion-A ebbe un altro dei suoi sorrisi, e riu­scì veramente a sorprendere Markham. «Forse, signo­re, avreste dovuto usare una sveglia.»

«Senti, senti!» disse lui, tirandosi su a sedere. «Hai il senso dell’umorismo! Dio sia ringraziato! Come fai?»

«È senso dell’umorismo sintetico» spiegò Marion-A, seria seria. «Era già incluso nella mia programmazio­ne. Il vero umorismo si basa all’origine su un senso di emozione che può essere sviluppato completamente solo in un sistema biologico. Ma io sono in grado di apprezzare il processo dissociativo del pensiero, e pos­so quindi interpretare le idee umoristiche, e anche crearne qualcuna.»

Markham si appoggiò esausto ai cuscini e sbadigliò. «Mi sorprendi, davvero. Il senso dell’umorismo... co­munque è già qualcosa.»

Marion-A si alzò. «Col vostro permesso, signore, vi metterò a letto.»

Mentre lei lo aiutava ad alzarsi in piedi, Markham si sforzò di sorridere. «Nel ventesimo secolo questa sarebbe stata una situazione alquanto anomala... Nien­te androidi, allora! Solo uomini e donne. Che mondo meraviglioso!»

Si appoggiò pesantemente a Marion-A, ma lei sosten­ne facilmente il suo peso e lo condusse nella stanza da letto. In un paio di minuti gli abiti da giorno venne­ro cambiati con una leggera tenuta notturna, e Markham si trovò comodamente sdraiato tra lenzuola tie­pide e pulite.

Marion-A ripose gli abiti. «Buona notte, signore» disse poi «vi auguro un buon sonno. Se dovesse ser­virvi qualcosa, non dovete fare altro che chiamarmi.»

«Grazie... Gli androidi non dormono, immagino, vero?»

«Quando il padrone o la padrona di un androide personale non hanno bisogno di nessun servizio, l’an­droide resta in piccolo allarme, che corrisponde su per giù alla distensione del sistema nervoso umano. Restia­mo in grande allarme solo quando siamo in servizio continuato.»

Markham le diede un’occhiata che non era né ama­ra né di scherno. «Ti auguro un buon piccolo allar­me, allora» disse, serissimo. Poi chiuse gli occhi, pen­sando per un attimo alla razionale efficienza degli an­droidi.

Marion-A spense la luce e tornò nel soggiorno. Si se­dette sullo sgabello di legno, chiuse gli occhi e rimase completamente immobile per le tredici ore che segui­rono, cioè fino a quando Markham si svegliò.

3

La faccia riflessa nello specchio del bagno non dimostrava centosettantasei anni. Sembrava su per giù la faccia di un uomo di trentuno. Osservandosi con occhio critico mentre si radeva, John Markham notò che la pelle della fronte era ancora fresca, addirittura gio­vanile. Al di sopra della fronte, la massa spettinata dei capelli neri non accennava a incanutire o a diradarsi. Caso mai era troppo lunga, infatti lui aveva avuto ur­gente bisogno di andare dal parrucchiere, centoquarantasei anni fa, e si era ripromesso di andarci alla prima scappata a casa da Epping.

Si sforzò di non pensare al passato, a Katy come l’aveva vista solo un paio di giorni prima... un paio di giorni che si erano trasformati nell’intervallo senza senso di un secolo e mezzo. Combatté l’improvvisa ag­gressione della nostalgia, del desiderio disperato...

Nel soggiorno lo aspettava la colazione. La colazio­ne, e Marion-A.

«Buon giorno, signore. Avete un’aria molto più ri­posata. Forse, dopo colazione, vi farà piacere passare un’oretta al sole. È una bellissima giornata.»

Lui diede un’occhiata alla luce che penetrava a fiot­ti dalla parete-finestra. Sole e cielo azzurro, le cose pre­ziose, immutabili. Provò dentro di sé una leggera on­data di vitalità: tanto era andato perduto, ma lui era ancora vivo.