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Il caso Hutchman si presentò fin dal principio con tutte le caratteristiche delle grandi missioni. L’affare aveva avuto inizio il giorno prima, quando gli avevano dato un numero di precedenza assoluta comunicandogli che Hutchman era un centro di interesse continuo e che lui doveva tenersi in stato di preallarme. Da quel momento Beaton non si era più allontanato, se non di pochi passi, dal suo telefono privato.

La voce, quando finalmente arrivò, era pressante e dura.

«Signor Beaton, sono un amico di Steel. Mi ha detto di telefonarvi per il conto in sospeso.»

Lui rispose in codice, dando le proprie credenziali. «Mi spiace di non aver pagato. Potreste mandarmi un altro conto?»

«Precedenza assoluta» disse allora la voce, senza preamboli. «Avete letto le notizie riguardanti la scomparsa del matematico Lucas Hutchman?»

«Sì.» Beaton ascoltava con molta attenzione tutti i notiziari. «Sono al corrente del fatto.»

«A quanto pare, Hutchman si trova nella vostra zona e le sue carte vanno trasferite immediatamente sul foglio sette. Chiaro?»

«Sì.» Beaton era eccitato e, nello stesso tempo, estremamente calmo. Per la seconda volta, dopo diversi anni, gli veniva ordinato di uccidere un uomo.

«Sul foglio sette. Immediatamente. Non sappiamo esattamente dove sia, però abbiamo intercettato un rapporto della polizia secondo il quale una Ford Director nera è stata trovata abbandonata tra Bolton e Salford, in Gordon Road.»

«Ma la Ford di Hutchman non era azzurra?»

«Secondo la polizia, la macchina non corrispondeva alla descrizione del libretto. Il libretto di circolazione diceva azzurra.»

«Tutto bene, ma se Hutchman ha abbandonato la macchina è evidente che non si trova nelle vicinanze. Voglio dire…»

«Riteniamo che la macchina gli sia stata rubata e poi abbandonata.»

A questo punto, un’idea allarmante si affacciò alla mente di Beaton. «Un momento. Noi stiamo parlando molto liberamente di queste cose per telefono. Supponiamo che qualcuno sia in ascolto. E se mi scoprono?»

«Non ha importanza.» Adesso, al posto della premura, nella voce di chi telefonava, c’era il panico. «Non c’è tempo per predisporre un incontro. Occorre concentrare tutti gli sforzi possibili su Hutchman. Manderemo sul posto tutti gli uomini disponibili, però voi siete il più vicino e dovete prendere tutte le misure necessarie. È una faccenda con precedenza assoluta, mi capite?»

«Capisco.» Beaton posò il ricevitore e andò davanti a uno specchio. Non era più lo stesso uomo di quando era arrivato in Inghilterra. Aveva i capelli grigi, ormai, e la vita facile di quegli anni lo aveva appesantito. Ancora più inquietante era la constatazione che gli anni avevano fiaccato la sua risoluzione, perché adesso non aveva alcuna voglia di far del male a qualcuno e tanto meno di uccidere. Eppure cos’era un ideale se non si era disposti a servirlo? E la vita stessa cos’era senza un ideale che desse un senso all’alternarsi senza fine di piacere e di dolore? Beaton tolse dal nascondiglio dietro un cassetto della scrivania un oggetto avvolto in un panno. Ne tirò fuori una pistola automatica perfettamente lubrificata, un caricatore di cartucce calibro 9, un silenziatore tubolare e un coltello a serramanico, nero. Montò la pistola, l’infilò nella tasca interna, si buttò addosso il cappotto e uscì, tenendo il coltello nella destra.

Erano le prime ore del pomeriggio, e una nebbia grigia velava gli edifici in lontananza. Il sole non abbagliava ed era ridotto a un disco che calava piano verso l’orizzonte. Beaton salì sulla sua Jaguar e partì verso Bolton. Quindici minuti dopo parcheggiò in una strada stretta e sì avviò lungo un viale. Non pioveva, ma c’era molta umidità e il selciato di pietra appariva lucido e nero. Arrivato in fondo al viale aprì una porticina ed entrò in un locale cavernoso di mattoni che, in passato, era stato una scuderia e ora serviva da garage. Un meccanico alzò gli occhi dal motore di un’auto e lo guardò, senza curiosità.

Beaton annuì. «C’è Raphoe?»

«È in ufficio.»

Beaton attraversò la porta annerita dall’olio e salì una scala fino a una specie di guardiola, attaccata al vecchio muro. Quando aprì la porta fu avvolto da esalazioni di paraffina. Un uomo grasso, con un naso a forma di fragola, era seduto al tavolo dell’ufficio.

«Ciao, Clive» disse in tono risentito. «Mi hai dato proprio un bel cavallo, venerdì.»

Beaton alzò le spalle. «Indovinando sempre chi vince, non esisterebbero più le scommesse.»

«D’accordo, però non mi va che il mio denaro faccia salire le scommesse di chi punta sul cavallo giusto.»

«Non penserai mica che ti abbia giocato uno scherzo del genere!»

«Non proprio. Sei venuto a restituirmi le mie cento sterline?» lo schernì Raphoe.

«No, però ho un cavallo per Devon e Exeter di sabato che è già oltre la linea d’arrivo.»

Beaton lo osservò e scoprì negli occhi di Raphoe un lampo di interesse.

«Quanto?»

«L’associazione vuole duemila, ed è un bel prezzo. Io te lo do per niente.»

«Per niente!» Raphoe si premette delicatamente la punta del naso enorme, come per dargli una forma più convenzionale. «Qual è il trucco?»

«Niente trucco.» Beaton cercò di apparire indifferente. «Voglio soltanto sapere dove i tuoi ragazzi hanno preso la Ford Director che hanno abbandonato in Gordon Road.»

«Lo sapevo!» Raphoe batté sul tavolo, soddisfatto. «Ho capito che quella carcassa era radioattiva appena Fred l’ha portata dentro. Quando ho visto che era stata riverniciata e che le targhe erano nuove ho detto a Fred: Portala immediatamente fuori e che non se ne senta più parlare. Mai mettere le mani su una macchina dove le ha già messe qualcun altro.»

«Hai detto proprio bene, Randy. E dove l’ha presa?»

«Secondo te quel cavallo è già vincente?» chiese Raphoe, fingendo di non aver sentito la domanda dell’altro.

«Master Auckland II» disse Beaton, trasmettendogli un’indiscrezione preziosa. Raphoe era notoriamente un chiacchierone e, a dargli una buona informazione, si rischiava di scatenare una reazione a catena di indiscrezioni che avrebbero determinato un crollo delle scommesse per le quali Beaton ci avrebbe perso un bel po’ di denaro. Comunque, aveva il sospetto che nel futuro immediato avrebbe avuto altro a cui pensare, oltre i cavalli.

«Vale la pena di tentare?»

«Randy, stavolta non è questione di tentare. E adesso, la macchina. Dove l’avete trovata?»

«Nel parcheggio dei Crickters. Sai dov’è? È una buona birreria, dalle parti di Breighmet.»

«La troverò.» A Beaton sembrava che il coltello che stringeva nella destra emanasse calore al punto da inumidirgli il palmo di sudore.

15

Era ancora giorno, quando Hutchman si svegliò, nella camera fredda. Allungato sul dorso, con le mani strette attorno alle lenzuola come per non cadere, cercava inutilmente di farsi venire in mente qualche frammento dell’incubo di prima. Hutchman, però, non ricordava mai i sogni.

Scappa! Ferma! Scappa! Ferma!

Si alzò, con un brivido, e andò ad accendere il gas.

Scappa! Ferma!

Forse avrebbe dovuto andarsene appena si era accorto che gli avevano rubato la macchina.

Avrebbe fatto meglio ad allontanarsi immediatamente, senza neanche tornare in pensione. Ma quella sera, però, era ubriaco, stava male, e aveva pensato che il ladro, in fondo, aveva fatto un buon lavoro togliendo di mezzo un elemento compromettente. Adesso aveva dei dubbi, e un impulso che si sentiva dentro lo spingeva a fuggire. Uscì dalla camera e scese le scale adagio, fermandosi a ogni pianerottolo come per decidere se doveva partire orizzontalmente nell’aria a ciascun piano. Una voce di donna salì lungo la tromba delle scale. Era la signora Atwood, che parlava con qualcuno al telefono, allegra, lieta di chiacchierare. Hutchman risentì la fitta della solitudine e decise di telefonare a Vicky. Sì, è possibile, pensò con stupore. Posso alzare il ricevitore e parlare. Mettermi in linea con il passato. Scese nell’ingresso, mentre la signora Atwood riappendeva il telefono.