«Va bene.» Hutchman posò il microfono. Dopo aver deciso che in taxi con limite di velocità sarebbe apparso fuori posto in autostrada si diresse a sud, verso Warrington, con l’intento di attraversare l’Inghilterra viaggiando sulle strade secondarie, più familiari. Un po’ più avanti c’erano tre ragazzine, ferme sul ciglio della strada, che chiedevano un passaggio. Si guardarono costernate, quando lui bloccò e aprì lo sportello.
«Dove siete dirette?» chiese sforzandosi di apparire benevolo nonostante la tensione che sentiva crescere all’idea del blocco stradale che non doveva essere molto lontano.
«A Birmingham» disse una di loro. «Ma non possiamo pagarci un taxi.»
«Non ce n’è bisogno, per questo.»
«Ma allora cosa volete?» chiese un’altra, mentre le compagne ridacchiavano.
Anche queste!, pensò Hutchman. «Devo andare all’aeroporto Ringway, a prendere un cliente. Vi offro un passaggio ma, se non volete, va bene lo stesso.» Fece il gesto di chiudere la porta e le ragazze strillarono e salirono in fretta nei sedili posteriori, rivolti all’indietro. Quando la macchina si rimise in moto le ragazze cominciarono a chiacchierare tra loro come se Hutchman non esistesse, e lui capì che andavano a partecipare a un corteo per Damasco. In quel momento scoprì, con stupore, che da giorni e giorni non pensava più a Damasco e che, in fondo, non gliene importava più della città distrutta e dei suoi indomabili ragazzini di sette anni che non avrebbero mai compiuto gli otto. Ormai era una faccenda personale. Un triangolo. Vicky, lui e la macchina anti-bomba.
C’era una lunga coda di macchine al blocco stradale, ma gli agenti diedero appena un’occhiata al taxi e ai suoi occupanti, facendo segno a Hutchman di proseguire.
16
Era mezzanotte passata quando Hutchman scese dal treno, a Hastings. Aveva portato la macchina a sud di Swindon, nel punto più vicino alla meta in cui osasse arrivare lasciando una traccia così evidente. Poi, nel corso del pomeriggio, l’abbandonò in un posteggio di taxi che, in quel momento, era sgombro. Di lì prese il treno per Southampton, e successivamente un secondo che arrivava a Hastings seguendo la costa. Però, in mancanza di coincidenze buone, passò la giornata ad aspettare, nervosamente, tra un treno e l’altro e a viaggiare a una velocità ridottissima.
Mancavano solo trentasei ore all’ultimatum e Hutchman, mentre usciva dalla stazione, era oppresso da quel pensiero. La mattinata grigia e dolce aveva lasciato posto a una pioggia fitta e gelata che tamburellava sulle grondaie. Lucas, appena s’incamminò sotto l’acqua, si sentì bagnato fino all’osso. C’erano diversi taxi in attesa, ma lui decise che era troppo rischioso… Passò accanto alla fila di auto, al buio, senza farsi notare, e si diresse verso Channing Way. Impiegò un quarto d’ora per arrivarci e, quando raggiunse finalmente la casa, era bagnato come se fosse caduto in mare, e batteva i denti con violenza.
Aprì la porta della villetta buia, ma, prima di entrare, si fermò un momento, in preda a una timidezza strana. Questo era il penultimo passo senza ritorno, definitivo, come il momento in cui avrebbe premuto il pulsante nero. Una volta entrato, inghiottito dall’umidità dell’ingresso e chiusa la porta avrebbe tagliato tutti i legami che ancora lo legavano con il resto dell’umanità. Anche se l’avessero seguito, se altri uomini avessero cercato di fare irruzione all’interno, avrebbero ottenuto, come unico risultato, che premesse il pulsante un po’ prima. Lui era l’uomo al piano zero, e la sua missione…
La porta era gonfia per l’umido e Hutchman, per chiuderla, dovette far forza con la spalla. Al riverbero di un lampione che filtrava dallo spiraglio trovò la via per il piano superiore. Quando accese la luce non successe niente: tranne che ebbe modo di rendersi conto che, durante la sua assenza, non era capitato nulla. Dentro c’era la solita sedia, di legno incurvato, dipinta di verde, e c’erano diversi pezzi della macchina. Ritornò nell’ingresso, trovò l’interruttore principale sotto le scale e lo premette. Hutchman, con gli abiti gelidi e inzuppati, uscì dal cunicolo e passò per tutte le stanze, accendendo le luci e chiudendo le imposte. L’effetto finale fu che la sua minuscola proprietà sembrava più squallida e deprimente di prima. Uscì nel cortile coperto, dove la pioggia tamburellava sul vetro, e diede un’occhiata nel deposito del carbone. Ce n’era abbastanza per riempire un bidone, però mancava la pala. Cercò bene nel cortiletto finché trovò diversi stracci sul pavimento del gabinetto esterno, che usò per raccogliere i pezzi di carbone e portarli nel camino, nella stanza sul retro. Lucas non fumava e di conseguenza non aveva l’accendino, però riuscì a dar fuoco a un pezzo di giornale servendosi della stufa a gas, ad accensione automatica, della cucina. Gli stracci unti bruciarono sfrigolando ma, anche aiutati dalla carta di giornale, non riuscirono a dar fuoco al carbone. Hutchman ebbe un attimo di esitazione, e si stupì nel constatare com’erano forti le sue inibizioni. Poi andò a prendere il cassetto del tavolo, lo fece a pezzi e lo buttò nel fuoco. Questa volta i pezzi di carbone attaccarono, assicurandogli per un’oretta un po’ di calore.
Si tolse i vestiti bagnati, si avvolse nell’unico pezzo di stoffa disponibile, cioè la fodera di un grosso divano, e si preparò ad aspettare per altre trentacinque ore. Sogno una stanza ed un bel fuoco, pensò. E le lacrime gli inumidirono gli occhi.
Quando si svegliò il mattino dopo, aveva un gran mal di testa e gli bruciava la gola. Ogni volta che respirava immetteva dal naso un torrente di aria gelata. Nel camino era rimasto un pugno di cenere grigia, mentre gli abiti erano ancora bagnati. Sforzandosi di controllare i brividi, raccolse gli indumenti gualciti e li portò in cucina. Poi accese il forno e i quattro becchi della stufa e fece asciugare i vestiti, cercando di scaldarsi il più possibile nel corso dell’operazione. Mentre aspettava, gli venne una gran voglia di tè. Non di quello delicato che beveva di solito con Vicky, ma di un tè forte, da buon prezzo, servito dolce e bollente. Era fermamente convinto che una tazza di quel tè gli avrebbe fatto passare il mal di testa, guarito la gola e tolto l’indolenzimento dalle ossa. Cercò negli armadi di cucina, ma la padrona di casa non aveva lasciato assolutamente niente del genere.
Va bene, pensò. Se non c’è tè in casa, andrò a comprarlo.
L’idea lo riempì di una gioia febbrile, fanciullesca. Aveva giurato di non aprire la porta di casa fin dopo il termine della missione, nell’eventualità che di fuori ci fosse qualcuno, ma era chiaro che era stato troppo prudente. Se fosse stato pedinato, a quest’ora se ne sarebbe già accorto. Si vestì in fretta, assaporando il piacere della recente decisione. Sarebbe stato bello entrare in una drogheria un po’ vecchiotta e aspirare il profumo delle spezie e del pane fresco. E sarebbe stato bello fare come fanno tutti, per esempio comperare tè, latte e zucchero.
S’infilò il giubbotto grigio e, mentre si dirigeva verso la porta, a un tratto si vide nello specchio d’entrata. I capelli gli spiovevano sulla faccia barbuta, che lo faceva somigliare a un Cristo morto. Gli occhi erano arrossati e aveva un’aria sudicia, malconcia, ammalata. E strana, soprattutto strana. Un fantasma che avrebbe insospettito un vecchio droghiere, o chiunque lo avesse visto anche per un solo momento. No, era impossibile uscire di casa.
Salì al primo piano, verso la sua macchina, e si preoccupò quando si sentì mancare e dovette aggrapparsi alla ringhiera. Sto male, pensò. Sto proprio male. Temeva di non riuscire a montare la macchina, o di non essere abbastanza in sé per farla funzionare al momento stabilito. Si raddrizzò, passò nella stanza sul retro e si mise al lavoro.
Durante la giornata la coscienza della realtà andò e ritornò, a intervalli.